Melek Ta'us

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martedì 26 giugno 2012


 

Charles Williams, Le Origini della “Dark-Fantasy”



Mondi Fantastici e dottrine Esoteriche

Un uomo vaga per le strade di una Londra “trasfigurata”, oscura e crepuscolare, fantasticando sul potere e sulla gloria e su come riuscirà  a ridurre il mondo in schiavitù, in questa e in un’altra vita. Non si tratta di una variazione del romanzo di formazione e non stiamo ascoltando le farneticazioni di un pazzo, siamo invece di fronte ai piani di conquista di uno dei più potenti e temibili negromanti che il mondo abbia mai conosciuto, Simon Leclerc (Un Avatar dell’Evangelico Simon Mago), e ci troviamo all’interno di uno dei più originali romanzi di “Dark Fantasy” ante-litteram mai scritti; “All Hallow’s Eve” (trad. it. “La notte di Ognissanti” Ed. Rusconi, 1975) dello scrittore e professore di studi rinascimentali e medievali, l’oxoniense Charles Williams. Williams fece parte di quella eletta schiera di studiosi, scrittori, amanti di antiche saghe pre-cristiane, poemetti allegorici medievali e “lays” arturiani che furono gli “Inklings”, i quali poterono beneficiare a lungo della guida e del supporto culturale di J.R.R. Tolkien e C.S.Lewis. Williams fu l’ultimo ad unirsi al gruppo, dietro insistenza espressa di C.S.Lewis, il cattolico fervente della “società” che per tutta la vita vide in lui un vero e proprio “Guru”. Quello studioso, dai modi estremamente riservati e dalla cultura pressoché sconfinata (Williams fu anche uno dei più grandi traduttori e commentatori dell’opera di Dante in lingua anglosassone) non tardò ad imporsi nel gruppo, con romanzi come il già citato “All Hollow’s Eve”, “War in Heaven”, “Descent into Hell” ed alcuni altri. Tolkien riconobbe fin da subito il valore letterario di tali romanzi ma guardò sempre con sospetto al suo autore, ritenendo che la sua opera e la sua vita, fossero ispirate da dottrine e convincimenti abbastanza lontani dallo spirito degli “Inklings”, improntato altresì ad un cristianesimo “militante”, allegorico oltre che simbolico e, naturalmente, epico. Stabilendo un confronto superficiale fra l’opera di Williams e quella dei suoi più conosciuti sodali, sicuramente balzano all’occhio alcune peculiarità tutt’altro che irrilevanti. Sia Tolkien che Lewis scelsero di rappresentare l’eterna lotta fra Bene e Male in mondi “Altri”, simbolicamente “collegati” al nostro, stiamo pensando alla “Terra di Mezzo” di Tolkien e alla “Narnia” di Lewis, inoltre entrambi gli autori avevano in mente concetti molto “concreti” per quanto riguarda la generica definizione di “Male”. In Tolkien si tratta della schiavitù abbrutente (rappresentata dagli “Orks”), dell’ambizione che divora ogni residuo di umanità (rappresentata da tutti coloro che cadono vittima dei poteri dell’anello), dalla presunzione e dall’odio, mentre in Lewis il Male è la tentazione per il proibito, l’arma peggiore delle “potenze dell’aria” che fanno sembrare il più orribile dei peccati nient’altro se non una fanciullesca effrazione a regole incomprensibili ed asfissianti. Williams invece ambienta tutti i suoi romanzi nella prosaica Inghilterra, industriale e rurale, del dopoguerra ed i suoi protagonisti non sono valorosi cavalieri, coraggiosi Hobbit o distanti Elfi, bensì curati di campagna, studenti e studentesse di Oxford, pittori di belle speranze, uomini e donne comuni insomma, eppure si tratta di narrazioni piene di apparizioni dell’Altro mondo, Negromanti, Potenze Celesti e infernali, Bestie Fantastiche etc. Tolkien inoltre usciva attivamente dalla prima guerra mondiale, dalle trincee asfissianti, dal tiro costante delle mitragliatrici e dalla paura onnipresente e terribile della morte, da qui forse le sue impressionanti, seppure “idealizzate” in un senso epico, quel senso che mancò totalmente alla disumana macelleria della “Grande Guerra”, descrizioni di battaglie campali. Aveva dunque un concetto molto chiaro di cosa intendesse per “Male”, pure Williams aveva il suo, ma era molto più sottile. 















“at bottom a darkness has always haunted me”, ebbe a dire una volta Williams ad un suo amico, eppure Lewis lo descriveva come la quintessenza della cavalleria, della generosità e della cultura, dunque quale era la natura di quella forza onnipossente che sembrava ossessionarlo? Leggendo i suoi romanzi, emerge la costante impressione del fatto che Williams, come tutti i mistici che lui conosceva ed annotava, possedesse la naturale convinzione che i conflitti, i mali e le guerre che opprimono questo mondo siano la diretta conseguenza dei conflitti cosmici che avvengono in un’altra realtà, una realtà “Parallela” alla nostra, eppure “intrecciata” alle nostre vicende e alla nostra storia contingente, la realtà dei miti, delle leggende e dei simboli. Da bravo mistico, egli tentò, diversamente dai suoi colleghi, di saperne di più sulla natura e sulle forze operanti in questa “Realtà” parallela, sfociando in quel fiume enorme ed eterogeneo che è nato quando nacque il concetto stesso di una Divinità creatrice e al tempo stesso distante ed il cui nome è “Teosofia”, ovvero, “Scienza delle Cose divine”. La conoscenza amicale che Williams intrecciò con il signor Arthur Edward Waite, gettò sul suo mondo quella luce della quale era in cerca da molto tempo. Waite era una poco ortodossa figura di studioso, artista e poligrafo, conoscitore di dottrine esoteriche ed entusiastico “enciclopedista” delle stesse. Fondatore della “Societas Rosicruciana in Anglia” (una branca della “Outer Masonry”, che faceva risalire le proprie origini ai Rosacroce tedeschi del 1700, una società segreta che professava un cristianesimo esoterico, mistico, riservato a pochi), nonché membro eminente della più famosa “Golden Dawn”, altra società “segreta” della quale fecero parte anche Sax Rohmer e il premio Nobel W.B.Yeats, Waite introdusse Williams ai rituali di queste società, rituali di magia “Cerimoniale”, la cui grandezza ed opulenza era ricalcata sulle magnifiche cerimonie “ermetiche” rinascimentali, così ben adombrate nella prosa di un Marsilio Ficino. Stando alle entusiastiche descrizioni che Yeats fece di queste cerimonie in “Autobiographies”, si trattava di rituali durante i quali si pronunciavano “nomi di potere”, si indossavano vesti ricche e colorate a colori simbolici rappresentanti i quattro elementi classici (terra, fuoco, aria e acqua), si impugnavano splendide armi, gioielli e costumi esotici, si bruciavano incensi ed oppiacei per rispettare congiunzioni simboliche con pianeti, pietre, animali, Dèi e Angeli  (un altro Mago, il sulfureo Aleister Crowley, offrirà invece un quadro piuttosto squallido di queste cerimonie). Nonostante la “Teurgia” (lett. “Invocazione di forze Divine”), che i seguaci della “Golden Dawn” consideravano un aspetto della Magia Cerimoniale sia a tutt’oggi considerata dalla Chiesa Cattolica come una disciplina proibita e condannata, Williams ne difese fino all’ultimo la validità conoscitiva ed affermò trattarsi di una dottrina assolutamente non in opposizione con quella Cattolica ed in questo non fece altro se non ripetere, nell’Inghilterra del XX secolo, l’appassionata difesa che il rinascimentale Pico della Mirandola fece della Cabala “Cristiana”. Williams fece sue alcune conoscenze proprie appunto della Cabala (o “Qabbalah”) ebraica, una forma “esoterica” di riflessione sull’Antico Testamento, che, fra le sue tecniche di meditazione, associa ogni lettera del testo sacro ad un valore numerico (“Gematria”), ed opera “Trasmutazioni” di nomi e lettere allo scopo di costruire sentenze mistiche e simboliche che vengono considerate come veri e propri testi “altri” e paralleli al Testo sacro originale. Mediante tali tecniche, che Waite conosceva bene, Williams diede forza alla sua convinzione di un Mondo “Altro” fatto di simboli e di figure Divine e demoniache, adombrato da questo, ma soprattutto arrivò a concepire la stretta relazione che intercorre fra il mondo Divino e quello umano e contingente, che costituisce la preoccupazione di ogni mistico. 













La “Teosofia” cabalistica infatti, sotto l’influsso della proibizione ebraica a rappresentare le fattezze divine, ha elaborato, in epoca medievale, una complessa fisiologia “sottile” tesa a descrivere la Divinità secondo i suoi attributi (Potenza, Saggezza, etc.). All’interno di uno schema ascendente, chiamato dai cabalisti “Albero della vita”, gli attributi divini vengono associati a sfere di vari colori (probabilmente di origine planetaria) chiamate “Sephiroth” le quali, fra le altre cose, vengono associate allo schema stesso di un ideale “Corpo” di Dio. Così “Kheter” (la Corona) sarà la sua testa, Binah (la Saggezza) corrisponderà al suo cuore, e così via, fino addirittura ad arrivare al sesso (in senso discendente). L’idea che la realtà e perfino il nostro stesso corpo possieda una “risonanza” tutta sua che lo collega alle forze tutte del cosmo era già un’idea rinascimentale, un’idea che personaggi come Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa, Marsilio Ficino e lo stesso Luigi Pulci (il creatore del “Morgante”, uno dei primi capolavori di Fantasy in assoluto) mutuarono direttamente dalla Cabala ebraica e Williams, che era professore di studi rinascimentali a Oxford, non fece altro se non continuare questa tradizione, integrandola con quelle pratiche “cerimoniali” che Waite gli fornì come supporto “pratico-operativo”. I rituali della Golden Dawn prevedevano un avanzamento dei “gradi” (da “Adepto” a “Magus” a “Ipsissimus”) fortemente legato alla simbologia cabalistica ed associavano tutto un complesso di divinità, angeli tutelari, profumi e colori specifici di ciascun attributo o “Sephirah”. Per ampliare e diffondere tale profonda credenza, che cioè l’uomo sia collegato intimamente a ciascuna e a tutte le forze del cosmo, Williams fece appello alle sue sconfinate conoscenze filologiche, con risultati che possono ben stare alla pari con quelli di Tolkien. In uno dei suoi componimenti poetici più famosi; “Taliessin through Logres” che si ancora all’immaginario celtico e profetico del mondo anglosassone pre-cristiano, Williams fornisce la suggestiva immagine di una mappa dell’Europa corrispondente alla parti del corpo umano, immagine sicuramente mutuata dalla composizione “Sefirotica” del corpo di Dio (Origine ed “Archetipo” di quello umano appunto).



 
Alle origini della Dark-Fantasy

I Mondi fantastici suggeriti da Williams, sono pertanto di genere più “sottile” rispetto a quelli di Tolkien o Lewis. Quest’ultimo si avvicinò forse a ciò che Williams voleva mostrare in almeno due dei suoi scritti meno conosciuti. Nel bel libro: "The Pilgrim's Regress" (“Le due Vie del Pellegrino” trad. Jaca-book, Roma 1979).












 Lewis abbandona il genere dell’allegoria di tipo cristiano-medievale, per abbracciare il mondo dei simboli, sorta di figure allegoriche “più profonde” in quanto richiamantesi a concetti ancestrali, solo superficialmente riferibili a caratteristiche morali o etiche e soprattutto, non ubicabili storicamente a questa o quella vicenda umana contingente. Il “Pilgrim” delle “Due vie” è un erede dei cavalieri Parsifal, Galahad e Bors della “Quete du Graal” medievale, è l’archetipo dell’uomo comune “trasfigurato” dal suo cimento nella “quest”, alla ricerca di un senso profondo dell’esistenza e alle prese con le difficoltà e i perigli della vita, incarnati in figure ominose come Draghi, Grifoni nani e fate Morgane. La “Trilogia di Edwin Ransom” costituisce invece un’ ennesima apertura a quel mondo “sottile” del quale la prosa di Williams è densa. Lewis ambienta le avventure del “viaggiatore interstellare”, nonché “Detective psichico” (nella tradizione dei vari John Silence e Carnacki) all’interno di una “Battaglia cosmica” fra bene e Male, combattuta su questo e in altri mondi, al tempo della seconda Guerra Mondiale. Suggerisce quel concetto, caro a Williams, per il quale le lotte e i rivolgimenti che avvengono in “questo” Mondo siano solo il riflesso materiale di ciò che avviene in mondi “spirituali”, archetipici e simbolici. Così ecco Ransom combattere sul pianeta Perelandra contro l’essenza stessa del Male, incarnata in una figura femminile dai tratti Vampirici e rettileschi, oppure opporsi, sulla Terra, al ritorno della Magia pagana e barbarica, incarnata nella figura potentissima del Merlino celtico, contro una “setta” (nei caratteri dei cui componenti sono riconoscibili i tratti del nazismo esoterico e magico) che vuole usare le forze di Merlino per i propri progetti di conquista e dominio del Mondo. Questa idea della “Lotta su più piani di esistenza” diventerà un tratto caratteristico di certa Fantasy statunitense, il cui più emblematico rappresentante sarà l’immaginifico Poul Anderson, scrittore pluripremiato di Fantasy e FS. 














Anderson ambienta questo genere di conflitto nel Mondo, a lui molto caro, della saghe Norvegesi e Danesi, ad esempio in un capolavoro come “Tre Cuori e Tre Leoni” (trad. it. Ed. Nord), laddove un onesto e coraggioso giovanottone danese, durante una lotta particolarmente cruenta contro un gruppo di nazisti si ritrova catapultato nel magico Mondo di Faerie, abitato da Streghe Esseri fatati, Giganti, Trolls e fanciulle-cigno, Mondo nel quale egli scoprirà di essere, nientemeno, che l’incarnazione di Oggieri il Danese, il mitico cavaliere protagonista, insieme a Orlando, dei “Cantari di Gesta” incentrati sulla figura di Carlo Magno. Le “Corrispondenze Archetipali” costituiscono uno dei punti di maggior forza all’interno delle complicate trame di Charles Williams. In uno dei suoi romanzi più riusciti; “The Place of the Lion” (Trad. It. “Il Posto del Leone”, Ed. Jaca Book 1996), Una agguerrita studentessa di Oxford evoca nel nostro Mondo, con la pura forza della propria smisurata ambizione accademica, gli Archetipi stessi dell’Iperuranio platonico, ovvero quelle “Forze dell’Immaginazione” primordiali che contengono nella loro propria essenza generale e increata la somma delle proprie manifestazioni individuali. Si sono sprecati interi libri di Filosofia per dimostrare quanto la teoria platonica degli Archetipi sia debitrice delle dottrine Vedantiche Hindu, con il loro concetto di Brahman (Essenza universale, Unica, ingenerata e increata) e le sue manifestazioni singolari sotto forma di Dei e Dèe, concepite nella loro “Avidya” (apparenza) come entità singole e separate e poco importa che Williams conoscesse o no le origini o gli sviluppi di questa “querelle” culturale, quello che è certo è che egli conosceva fin troppo bene il “Modus Operandi” degli Archetipi. 
















 

Quando l’Archetipo del Leone (di lewisiana memoria) fa la sua apparizione nella placida campagna oxoniense, richiamato dall’ambizione femminile della protagonista (Il Leone corrisponde anche all’Arcano Maggiore dei Tarocchi denominato “La Forza” e corrispondente alla volontà ed alle ambizioni umane) non è infatti un Leone qualsiasi è l’”Essenza stessa” del genere Leone, la somma di tutti i suoi “Avatar” particolari, risultato; nel momento in cui appare l’Archetipo, tutti i leoni della Terra scompaiono “riassorbiti” all’interno della loro immagine “Universale” e così pure avviene per gli altri Archetipi che fanno la loro comparsa nel romanzo. Suddette immagini seminano il panico ad Oxford, fin quando i protagonisti non apprendono che tali forze occulte sono forze “umane”, dunque in grado di venire dominate dalla volontà e dall’immaginazione del genere “Homo”. Già da questo esempio è possibile stabilire una differenza fra il genere di Fantasy tolkeniano e quello concepito da Williams. La “Terra di Mezzo” di Tolkien infatti, non è che una immagine allegorica della nostra, un Mondo “alternativo” che può o non può venire collegato al nostro. Nani, Orchi Elfi ed Hobbit, corrispondono ad immagini rigorosamente allegoriche, laddove; i Nani rappresenterebbero la curiosità umana e l’ambizione (conoscenza occulta dei segreti della Terra) facilmente soggetta al demone dell’Avidità, gli Elfi all’Immaginazione umana “forgiata nel fuoco delle origini” facilmente reversibile nella prevaricazione e nella volontà di dominio, gli Hobbit corrispondono invece alla semplicità e alla purezza, il cui specchio oscuro è il campanilismo, la vigliaccheria e il provincialismo. Ma Williams è “consapevole” di una “reale” interdipendenza fra il Nostro ed altri Mondi, di una “Risonanza” occulta per la quale le forze all’Opera nel nostro Mondo sono causate e sono causa a loro volta di eventi rilevanti che avvengono in Mondi “Paralleli”, coesistenti e, a volte consustanziali al Nostro, Mondi con regole proprie, abitanti propri e “Potenze” proprie. Lewis, nella lettera che scrisse a commento di “The Place of the Lion” (fedelmente riprodotta nell’edizione italiana) insiste sulle caratteristiche di Fantasy “cristiana” del Romanzo, insiste cioè a voler interpretare il contenuto del Romanzo come un commentario teologico a proposito del peccato di ambizione ;” … abuso dell’intelletto cui è oltremodo suscettibile la mia professione (leggi quella di Professore oxoniense)”, ma dimostra di aver ben appreso la lezione del “mentore” Williams quando descrive gli usi e i costumi delle razze autoctone di Perelandra e del “Pianeta Silenzioso” nella sua “Trilogia di Ransom”. Le dottrine alle quali Williams dedicò tanto tempo ed energie, professavano appunto tutta una serie di “credenze scientifiche” di questo tenore (L’Occultismo, in ultima istanza, altro non è se non una “Scienza dello Sconosciuto”), ovvero che fosse possibile entrare in contatto “reale” con essenze e creature di “Altri Mondi” mediante l’ausilio dell’ Immaginazione umana “allenata” alla visione di tali entità sotto forma di simboli, ideale commentario al famoso detto; “Tutte le Leggende possiedono un fondo di Verità”. 



Un piccolo diavoletto rosso

Sempre Lewis, in un suo romanzetto “apologetico” chiamato “The great Divorce”, ci presenta un Angelo che si offre di liberare l’anima condannata dal suo tormento espiatorio, purché rinunci al peso del suo peccato, simbolizzato da un diavolo rosso attaccato alla sua spalla. Naturalmente il demonio non cederà tanto facilmente, inutile dirlo. Tutta la vicenda è “simbolica” in realtà, in quanto per tutti gli “Inklings” (ed anche per narratori del Fantastico inglese quali Arthur Machen e Algernon Blackwood) il peccato ed il Male esistono e sono realtà “concrete”, poco importa che a sostegno di tale verità si chiami in causa la dottrina Cattolica, quella Anglicana della Predestinazione o quella esoterica della Qabbalah. Il primo passo è riconoscere l’esistenza del Male, riconoscere che viviamo in un’isola di beata ignoranza, nella quale non c’è posto o non c’è spazio apparente per realtà “alternative”. La Londra dei narratori ai quali facciamo riferimento è un’allegoria della prosaica realtà umana, fatta di costanti impegni per sopperire alla mera sopravvivenza, una realtà composta da studenti, impiegati, banchieri, pittori o semplici sognatori squattrinati. Ma ecco, all’improvviso l’Ignoto fa la sua comparsa, la Meraviglia supera la Soglia che i nostri impegni quotidiani tengono sbarrata e invade la nostra ordinata e prosaica Realtà, generando scompiglio e terrore, a quel punto non rimane che una scelta, affrontarla o soccombere ad essa. Il Male è più preparato di noi a combattere questa guerra perenne. Egli sa che la nostra percezione corrente non è che un velo, un diorama che può sollevarsi a suo piacimento per rivelare l’esistenza di altri mondi e altri conflitti, e gli agenti del Male sanno come sollevare questo velo e nuocerci, in maniere che non osiamo neppure immaginare. Charles Williams elaborò una interessante dottrina, quella della “Co-Inerenza”, per la quale la Creazione, così come noi la intendiamo non esiste solo nel momento presente, ma anche, e soprattutto allo stesso tempo, in quello passato e in quello futuro. Il Male conosce bene questa realtà, ecco perché ha un vantaggio in più rispetto a noi. E’ proprio in virtù della “Co-Inerenza”, che il Mago Simon Leclerc di “All Hallow’s Eve” può trascorrere l’Eternità indisturbato per perseguire i suoi sogni di Sacerdozio eterno e dominio del Mondo. Inoltre “L’Altro Mondo” convive contemporaneamente al Nostro, pertanto le vittime che Simon Leclerc asservisce alla propria sete di dominio, non saranno sue schiave solo in questa Realtà, ma anche in quella dei Morti e dei trapassati (in sintesi l’essenza della Necromanzia medievale, ovvero la facoltà diabolica di utilizzare i morti per i propri fini), fin quando le forze del Bene non comprenderanno che anche loro sono soggette alla Legge della “Co-Inerenza”. Una volta assodato questo, il protagonista della Novella si avvarrà dell’aiuto della propria moglie, defunta da tempo durante un incidente aereo, ma sempre vicina a lui anche se su di un piano più “sottile” e potrà rendere a Leclerc pan per focaccia.










 Allo stesso modo, in “War in Heaven” (Trad. It. “Guerra in Cielo”, Jaca Book 1994) l’apparizione del Santo Graal sulla Terra richiama automaticamente le forze del Male, rappresentate da streghe e stregoni, le quali conoscono molto bene i riti per incatenare al Male ciò che è puro e buono, mentre un semplice curato di campagna faticherà non poco a comprendere che le forze soprannaturali di altri mondi sono ben lungi dall’essere una mera  allegoria di vizi e di virtù umane. Benché in Williams  l’elemento orrorifico, rappresentato da streghe, fantasmi, Necromanti ed esseri maligni, abbondi, egli non si limita solo a mostrare questo. Un Romanzo del terrore, si ferma inevitabilmente all’irruzione dell’ignoto nella vita quotidiana ed alla inevitabile sconfitta del prosaico; il Fantasy invece prosegue “Oltre la Soglia”, laddove la battaglia infine ha luogo e la lotta contro l’Orrore contiene in sé la promessa di una realtà più piena, più densa di significato, trasfigurante oseremo dire, da qui l’aspetto “iniziatico” di ogni buona Fantasy che si rispetti. Abbiamo già detto che Williams era ossessionato, come ogni buon Mistico (come lo fu anche il gallese Arthur Machen ad esempio) dal problema del Male. Certi suoi atteggiamenti rivelavano altresì una certa dose di sadismo (vedi in proposito il saggio “Charles Williams: The Last Magician”, Grevel Lindrop, 2008) come testimoniano i seguenti versi tratti da un suo componimento: 

My mind possessed me with delight
To wrack her lovely head
With slow device of subtle pain.

Williams sentiva la necessità di superare il semplice problema del Male (semplice nella sua manifestazione prima, ovvero il Terrore), di comprenderne la Natura per così comprendere anche la natura delle Forze benigne del Creato. Waite gli fornì così una infarinatura di Magia Nera essendo infatti uno storico appassionato di dottrine occulte, infarinatura alla quale Williams attinse a piene mani in Romanzi come “War in Heaven” e “Descent into Hell”. Superata però la soglia del Terrore, attende l’ultima prova, quella della natura “Reintegrata”, nella sua essenza, ricongiunta nel senso di appartenenza a tutto il Creato. Ecco perché Williams fu un convinto sostenitore della concezione dell’Amore umano (nella sua accezione erotica e non platonica) in quanto specchio di quello divino. Ciò comporta dei sacrifici, in quanto è estremamente difficile riunire ciò che Dio (o gli Dèi secondo il “Simposio” di Platone) hanno separato.









In “All Hallow’s Eve” è come se i due protagonisti dovessero nuovamente sposarsi, la seconda volta in maniera realmente più “sottile”. La prima volta furono uniti nell’amore umano, la seconda celebreranno un matrimonio mistico fra due Mondi, dato che Richard è ancora vivo, mentre la Moglie appartiene oramai al mondo dei Morti, un matrimonio “alchemico” se vogliamo. Per Williams l’amore possiede sempre una qualità ambigua ed “eroica”, quasi cosmogonica. Due Mondi e due Potenze si tratta di unire, non solo due corpi ed è un po’ quello che lo stesso Tolkien vuole suggerire con il suo “Matrimonio Sacro” fra il Re umano Aragorn e la sua elfica consorte Arwen. Williams celebrò tale dicotomia mantenendo una relazione extraconiugale durata ben diciotto anni (di tipo platonico stando ad i suoi biografi) con la signorina Phyllis Jones, relazione molto conflittuale e sulla quale ebbe ben più che un ripensamento. 


 
L’eredità di Williams, la Dark-Fantasy propriamente detta

Per i più “profani” si può dire che il genere “Dark Fantasy” possieda la struttura del Fantasy (con tutti gli elementi di “Quest” lotta del Bene contro il Male etc.) con in più elementi del classico racconto del Terrore (Zombi, lupi mannari, Spettri, Stregoni etc.) ma abbiamo visto che la faccenda è molto più complessa e sta molto più a monte. Williams è stato in realtà il capostipite di questo genere e gli ha procurato una struttura complessa e articolata quanto e più del complesso apparato simbolico-allegorico che sta a monte del “Signore degli Anelli” del suo collega “Inkling” J.R.R.Tolkien. In ordine di anzianità, si può dire che i primi eredi diretti di Williams sono stati i britannici Brian Lumley e Tanith Lee. Il primo ha scelto di dotare il complesso simbolismo inerente al pessimismo cosmico di matrice lovecraftiana di una struttura “Fantasy” con tanto di suddivisione in magia bianca (operata da Deità benigne come il celtico Nodens) e magia nera, scienza oscura praticata dai “Grandi Antichi” e dai loro perversi seguaci, con una operazione che assomiglia molto al ciclo di Edwin Ransom di Lewisiana memoria. La “Saga di Titus Crow” di Lumley (trad. it. Per Fanucci editore, coppia di volumi oramai fuori catalogo), possiede molti elementi dei classici racconti di “Investigatori psichici”, come il John Silence di Algernon Blackwood e il Carnacki di W.H.Hodgson, combinati con il racconto “onirico” alla Dunsany e, naturalmente, con il ciclo di Cthulhu di H.P.Lovecraft. Nel romanzo “Khai di Khem” invece, ambientato in un oscuro Egitto pre-dinastico pieno di elementi magici, Lumley affronta il tema della Reincarnazione e della Magia esoterica egizia, raggiungendo quadri di notevole potenza, che accomunano il romanzo alle soluzioni adottate in “All Hallow’s Eve”. Per quanto invece riguarda le opere della scrittrice pluripremiata Tanith Lee, gli elementi in comune con le tematiche introdotte da Williams non si contano. Tutti i temi esoterici vengono trattati dalla Lee con maestria inusitata; dalla Reincarnazione, al tema degli angeli caduti, dai tarocchi alla stregoneria medievale, all’interno di bellissimi romanzi come “Lord of Delusions”, “Nightlords”, “The secret books of Paradys I & II” e “Volkhavaar”. Sono trame complesse quelle della Lee, misto di crudeltà e di tenerezza (tratti caratteristici sia della prosa che della poesia di Williams come abbiamo visto), delineate in Mondi paralleli al nostro, oppure in passati e futuri che ci appartengono ma di cui abbiamo smarrito il ricordo, o riferentisi a Mondi “sottili” per riconoscere i quali bisogna possedere una “vista” allenata. 








Ma a tutt’oggi, l’allievo più promettente di Williams si è rivelato lo statunitense Tim Powers. Benché la complessità delle trame di Powers risenta molto della narrativa di P.K.Dick (del quale Powers è stato amico e ammiratore devoto) pure l’apparato simbolico e immaginifico dei suoi romanzi è fortemente debitore dei romanzi di Williams (per stessa ammissione di Powers). Il romanzo “From stranger Tides” (trad. it. “Mari Stregati”, Per Fanucci, 2011), tornato alla ribalta negli ultimi tempi a causa del (poveramente basato) riadattamento cinematografico della Disney, mantiene praticamente intatta la struttura di “All Hallow’s Eve”, con, in più, tutto il fascino di una storia di pirati vecchio stile alla “Capitan Blood” di Rafael Sabatini. Proprio come nel romanzo di Williams, qui il tema centrale è appunto costituito dalla Necromanzia, che in Powers si svincola delle sue radici medievali per radicarsi nell’esotico mondo del Voodoo haitiano-caraibico, con i suoi maligni bocor, le sue ciurme di Zombi e la magia simpatetica. Le veci di Simon Leclerc sono “prese in custodia” da una coppia di convincenti stregoni inglesi, tesi ad operare commistioni occulte fra magia rinascimentale e stregoneria africana e la cosa più bella è che Powers si documenta in maniera ineccepibile, descrivendo complesse cerimonie magiche e combinandole con rigorose proprietà scientifiche, secondo una formula felicissima che ripeterà invariata in tutti i suoi romanzi. In “Anubis Gates” (trad. it. “Le porte di Anubis”, Fanucci ed. 1991), da molti considerato come il suo capolavoro, si assiste a paradossi e salti temporali (con l’invariabile elemento magico di sottofondo), ma l’opera è più una riflessione sul concetto teologico della Predestinazione (spiegata in termini scientifici) che non un’originale opera di fantascienza ispirata al filone Steampunk, come affermano i suoi critici più classici. “The Last Call” invece, collega il simbolismo dei Tarocchi al gioco del Poker ed è, a paragone di chi scrive, un capolavoro. Ambientata nella Los Angeles creata dal Gangster “Bugsie” Siegel (al quale viene ritagliato anche un piccolo, importante cammeo), prende spunto rispettivamente dai romanzi di Williams “The Greater Trumps” (sul simbolismo dei Tarocchi) e “Descent into Hell”. Il malvagio di turno apprende, utilizzando le figure di un mazzo di tarocchi “maledetto” a proiettare la propria anima in altri corpi per allungare indefinitamente la propria giovinezza, esattamente come lo stregone malvagio di “Descent into Hell”. I Tarocchi di Powers sono in realtà immagini archetipiche di Dèi e Dèe (come la lunare Lilith-Astarte babilonese), dunque potenze archetipiche (come quelle di “The Place of the Lion”), inoltre permettono di anticipare il passato e scrutare il futuro (come gli Arcani Maggiori di “The Greater Trump”), il tutto abilmente mescolato alle superstizioni e alla “cabala dei numeri” propri del sottomondo dei “gamblers” di professione. 

“The stress of Her Regard” (trad. it. “Lamia” Fanucci ed.) è chiaramente ispirato a “Descent into Hell” ed ha preteso da Powers un notevole lavoro di documentazione sulla vita e le vicende dei Poeti Romantici George Byron e Percy Bysshe Shelley. Prendendo spunto dal tema del “Doppelganger” (doppio oscuro e demoniaco) al quale fa oscuramente riferimento lo stesso Shelley nel suo “Prometheus Unbound”, Powers riprende tutto l’apparato di Williams relativo al vampiro biblico Lilith ed ai fantastici e terribili “Succubi”, facendone risalire la stirpe ai mitici Angeli caduti chiamati Nephilim (“I Veglianti”) dell’apocrifo “Vangelo di Enoch”, descrivendoli come una razza aliena, precedente alla nostra in termini storici, attirata da noi in termini erotici e soggetta ad una serie di restrizioni e regole, misto di proprietà magico-esoteriche e di elementi scientifici abilmente combinati fra di loro (secondo la regola classica). 






Purtroppo non tutta l’opera di Tim Powers è stata tradotta in italiano e la maggior parte di ciò che è stato tradotto è oramai fuori catalogo. Un vero peccato dato che Powers non ha perso un colpo nel descrivere trame complicate e dense di personaggi credibilissimi e indimenticabili. Nella sua penultima fatica; “Declare” (2001), Powers si propone addirittura di descrivere una Guerra Fredda “esoterica” a basi di magie ancestrali e creature leggendarie (fra le quali l’immancabile Merlino), una trama che Charles Williams avrebbe di sicuro apprezzato.


Mariano D’Anza

Charles Williams: Bibliografia parziale
“La notte di Ognissanti”, Rusconi, 1975
“Il Posto del Leone”, Jaca Book, 1996
“La Pietra di Salomone”, Jaca Book, 1983
“Guerra in Cielo” (Con un articolo introduttivo di T-S.Eliot), Jaca Book, 1994
"Discesa all'inferno" tr. di Aldo Camerino, La Sfera 2, Sodalizio del Libro, 1959
Tutti i romanzi di Charles Williams sono scaricabili gratuitamente (in lingua inglese) sul sito “Project Gutenberg”.








mercoledì 12 ottobre 2011

I tre moschettieri e il Dio delle streghe (parte seconda)

Il precursore: Arthur Machen


“Vi sono scrittori non profani di cui si dovrebbe scrivere in termini non profani” , scriveva Giuseppe Lippi di Arthur Machen nell’introduzione al “Gran Dio Pan”, antologia di racconti pubblicata in Italia nel 1982. Robert Kirk si cimentò nell’impresa di affrontare la materia popolare guidato dalla sua incrollabile fede nei testi Sacri e lo scrittore di cui qui si tratta non gli fu da meno. Machen nacque in una regione come il Galles da sempre ricca di tradizioni e leggende popolari sul “Popolo nascosto” ed apparve chiaro fin dal principio che questo uomo di lettere, trasognato e con evidenti tendenze mistiche era nato in un’epoca che non gli apparteneva, fatto che ribadì in più di un’occasione contravvenendo così al rigido precetto morale di Soren Kierkegaard. Fedele partigiano del “Cristianesimo celta” (precedente allo scisma anglicano ed ancor più precedente a quello avvenuto fra il monachesimo “irlandese” e il Cattolicesimo romano) si identificò con la figura di un cavaliere crociato fin dall’adolescenza, narrata in toni drammatici nel suo scritto semi-autobiografico “The secret Glory”. Lungi dal dimenticare tale espediente adolescenziale, sortito da una sensibilità fantastica sofisticatissima, e costretto a convivere con la laida prosaicità esibita dai rampolli della società “bene” inglese del tempo, Machen la mantenne fino alla morte, trasformandola col tempo in una rigida disciplina militare ed esistenziale che chiamava in causa i neo-platonici ed i gradi della trasformazione alchemica. Lo scrittore gallese era un nemico acerrimo della cosiddetta “Modernità” che l’Inghilterra del tempo esibiva sotto forma di un acceleratissimo progresso industriale e commerciale e visse per sempre in una “ancestralità” che spaventa a tutt’oggi per completezza d’insieme e coerenza di contenuti. La visione del mondo di Machen, come già rilevò Robert M. Price nella sua introduzione al lovecraftiano “Ciclo di Dunwich”, potrebbe riassumersi in una concezione plotiniana dell’Universo. Price è curatore, negli Stati Uniti, di diverse antologie incentrate sul micro- Universo dei miti Cthulhu di H.P. Lovecraft, nonché membro della Chiesa episcopalista e professore di Storia delle Religioni. Il critico e docente statunitense ha avuto l’innegabile merito di cercare un retroterra religioso e filosofico all’opera degli autori di Letteratura fantastica che hanno ispirato o seguito il maestro di Providence. Si legge nelle “Enneadas” di Plotino che l’ordine governante l’Universo è stato tratto dal Caos indifferenziato dalla mano del Demiurgo o Creatore, il quale pose anche un veto alla creazione di là da venire, un tabù che concerneva la “Regressio”, ovvero il voler esplorare e conoscere l’abisso indifferenziato del Caos antecedente al Mondo. La Magia o le “Scienze Occulte” venivano considerate da Plotino come una “contro-scienza” o scienza “retroattiva”, ovvero un regresso demoniaco al mondo mutevole del Caos, laddove si mescolano anarchicamente i principi, i generi, le differenze fra i sessi e le misure, la vera “pietra miliare” dell’ordine costituito. A questa visione del mondo Machen aggiunse alcune speculazioni della scuola di Chartres, in particolare di Bernardo Silvestre, suggeriamo noi.

La scuola di Chartres  influenzò a suo tempo anche il monachesimo celta, ed in particolare nei poemi di Bernardo Silvestre, suo illustro appartenente, si trovano speculazioni che associano simbolicamente il Caos al rigoglio di forme della Selva (in greco “Hyle” da cui l’aggettivo “ilico”, utilizzato anche da Paracelso per definire certi umori corporei particolarmente nocivi) e che temperavano, in certa misura, le concezioni “puritane” di Plotino. Machen era infatti innamorato dei suoi boschi gallesi e del loro anarchico rigoglio di forme che paiono suggerire continuamente presenze ultraterrene, ma se Kirk situava la variopinta genìa delle Fate in un mondo “liminare”, a metà tra l’assoluta purezza dei Reami angelici e il terrificante baratro degli inferni biblici, Machen non ha nessun dubbio nel relegare queste creature nell’Abisso. La storia del “piccolo Popolo” si iscrive per lui nel sangue e nel terrore (la vera e autentica essenza delle fiabe, per Kafka) ed affonda le proprie radici in un territorio che sta ai margini della storia ufficiale. Nella “Storia del sigillo nero”, contenuta nei “Tre impostori”, si trovano accenni a un popolo misterioso all’interno di un oscuro passo del geografo latino Pomponio Mela, ove si parla appunto di genti mostruose che vivono nei deserti della Siria e che adorerebbero una strana pietra solcata da glifi che non assomigliano a nessuna scrittura conosciuta. Nel racconto si trova ben più di una accenno a quella contro-scienza che costituirebbe il marchio delle presenze caotiche, quella mutazione dell’umano nell’indifferenziato, il germe dell’oscurità che dorme latente in ognuno di noi e che una sapienza demoniaca è in grado di ridestare, come testimonia l’orrenda metamorfosi subita da un povero idiota di campagna la cui madre fu rapita un tempo dal “piccolo Popolo”. E’ un tema che ricorre anche in “The great God Pan”, nonché nel racconto “The White Powder”, tema che Lovecraft riproporrà pressochè immutato sia in “The Dunwich Horror”, sia in “The Shadow over Innsmouth”. Ma è quando lo scrittore gallese ricostruisce intorno al “Popolo nascosto” un passato archeologico che ci interessa di più. In “The shining Pyramid”, un discreto gentiluomo londinese con il pallino dell’archeologia è chiamato a risolvere un caso di particolare complessità. Un suo collega e sodale ritiratosi a vivere nella campagna gallese, rinviene alcuni simboli oscuri, a forma di freccia, nelle vicinanze della sua avita magione. Inizialmente i due gentiluomini pensano a uno scherzo ordito dai bambini del luogo, ma devono ben presto ricredersi. Il gentiluomo londinese riesce alfine a collegare la strana scomparsa di una fanciulla del luogo alla presenza dei segni, scoprendo alla base dei ritrovamenti la presunta esistenza di un orrendo festival che dovrebbe tenersi nelle campagne dei dintorni, all’interno di una vallata particolarmente isolata. Seguendo la traccia, i due assistono ad un orrendo rituale tenuto da esponenti di una razza di nani appartenenti all’età neolitica (suggerita da ritrovamenti di punte di freccia in selce accanto ai glifi nel giardino) i quali perpetuano la loro razza in estinzione accoppiandosi con fanciulle rapite nelle campagne.

La posizione di Machen è cristallina; il Male non è un concetto teologico, ma una realtà tangibile nonché altrettanto storica quanto l’esistenza di Gesù Cristo. Per essere storica deve aver posseduto un passato benchè oscuro, passato che le forze malefiche hanno disseminato di indizi concreti sulla propria esistenza, da qui l’espediente del “Lapis Hexecontalitho”, ovvero la “Pietra ottanta” di cui fittiziamente parla Pomponio Mela e che l’orrenda razza delle Fate adora, o le punte di freccia che i due terrorizzati gentiluomini rinvengono all’interno di un insospettabile giardino “Cockney”.  Come un ispirato monaco medievale, Machen intesse la sua oscura trama simbolica allo scopo di dimostrare un assunto che è quasi dogmatico e lo fa attraverso le parole di personaggi come il mistico Ambrose di “The white Creatures”, il quale ad un esterrefatto visitatore recita: “Esistono sacramenti del Male tanto quanto esistono sacramenti del Bene”. Il Cristo coniugava il soprannaturale alla storia, dunque il Male avrà una “storia” come noi la necessitiamo ed avrà anche una soprannaturale “degradato” in Magia, secondo la concezione degli esegeti medievali. Così Come il Cristo ha perpetuato la propria esistenza nelle parole degli apostoli, anche il Male ha perpetuato la propria attraverso riti, simboli, figure, armamentario di stregoni e fattucchiere o di popolazioni intere, “tribù dell’aria” come le definiva il Kirk. “The white Creatures” è un assoluto capolavoro scritto allo scopo di illustrare un concetto che gli stessi Santi medievali avrebbero evitato di affrontare; se esiste una purezza del Bene DEVE esistere anche una purezza del Male. “The white Creatures” è la storia dell’iniziazione di una bambina al Male, attraverso giochi, filastrocche e racconti di Fate narrate dalla bambinaia. E’ il racconto di Machen più riuscito sulle Fate anche perché riesce a mescolarvi abilmente sia l’aspetto archeologico che quello “Occulto”. Le bianche e diafane creature che la bambina avvista in più di un’occasione paiono quegli spiriti aerei di cui parlava Kirk nel suo trattato, ma i riti e le cerimonie alle quali la bambinaia inizia la sua giovane pupilla rivelano significati inquietanti, che nomi fiabeschi come “Giochi Mao”, “Cerimonie Voolas” o “lettere Aklo” riescono a malapena a dissimulare. “In un certo posto sorgeva una fossa profonda …” così comincia una delle fiabe “iniziatiche” che racconta la bambinaia, storie che celano significati occulti e inquietanti, come quei libri “complessi come trattati rosacruciani” di cui parla Kirk. Principesse che uccidono i loro pretendenti con la magia, viaggiatori solitari che incappano in sabba sulle colline, donne alle quali misteriose creature celate in forre profonde regalano la capacità di tramutare sterpi e fili d’erba in gioielli e monili, di questo parla la balia, spiegando cose terribili con il linguaggio che una bambina può comprendere. Si narra anche di una cerimonia terribile chiamata “Shib show”, rito agghiacciante che pare collegare il piccolo popolo ai serpenti. La Principessa della fiaba si sdraia in una radura della foresta e lascia che i serpenti ricoprano interamente il suo corpo nudo, quando lo abbandonano lasciano sul petto della fanciulla una pietra iridescente dai grandi poteri, pietra grazie alla quale la Principessa può comandare agli elementi e piegare la realtà ai suoi voleri. Tutto il gioco letterario di Machen sta nel lasciar trapelare una verità spaventosa sotto le parole innocenti dell’infanzia, una verità “storica”. Nel “Sigillo nero”, lo pseudo-Pomponio Mela afferma che le “Genti nascoste” parlano tra loro con versi che assomigliano ai sibili di un serpente, Vaughan ode fruscii rettiloidi mentre assiste alla disgustosa cerimonia descritta in “The shining Pyramid”, mentre l’orrore dello “Shib show” non abbisogna di ulteriori suggerimenti sonori per fare il suo effetto. Il “Piccolo popolo” è latore di uno spaventoso segreto e di poteri ancor più agghiaccianti, poteri di cui congreghe di stregoni, sia maschi che femmine, sono a conoscenza da millenni. In Machen appare già l’idea di una società organizzata ed occulta che pratica una forma di magia ancestrale e proibita. Nell’uomo nero che segue la balia e la bambina mentre si addentrano nel bosco è possibile riconoscere il “Maestro di cerimonie” la testimonianza della cui esistenza gli inquisitori cercavano di strappare a forza di torture da sedicenti streghe e stregoni, mentre “The white Creatures” termina con il ritrovamento di una statuetta fallica di origine romana rappresentante appunto un uomo. Si ricava da questo e da altri indizi, un affresco nel quale le cerimonie pagane erano ben lungi dall’essere scomparse per via dell’inquisizione. Queste cerimonie non erano per Machen solo un mero fatto culturale da abbandonare alle tenebre della storia, ma veri e propri riti tramandati a tutt’oggi da comunità isolate e discrete. Queste comunità non sarebbero composte da bizzarri ed eccentrici campagnoli inglesi col pallino del “revival celtico-romano”, ma costituirebbero un clero ben organizzato teso alla continua pratica dei “Sacramenti del Male”, in contatto con creature ancor più antiche e dotate di oscuri poteri. Tralasciando l’enorme impatto che tale concezione ha avuto nella letteratura statunitense “pulp” successiva, ci limitiamo a segnalare che R.E.Howard, il creatore di Conan, insisterà proprio sull’aspetto rettiloide del Piccolo popolo, continuando sulla scia già trattata da Machen, in racconti di grande effetto, mentre la Murray trarrà, da quella che era nelle sue origini, null’altro che una fiaba allegorica sulla natura del Male, una teoria antropologica fondata e coerente, ulteriore riprove del fatto che, ben spesso, la realtà supera la fantasia, come vedremo più avanti. 

(vedere sotto per la prima parte...)

Mariano D’Anza

domenica 9 ottobre 2011

I tre moschettieri e il Dio delle streghe

Quando parliamo dei “Tre Moschettieri”, a meno di specificare che si tratti del capolavoro di Dumas, stiamo in realtà parlando dei tre più importanti e creativi scrittori della rivista “Weird Tales” ovvero i ben noti H.P.Lovecraft, R.E.Howard e C.A.Smith. Verrà pertanto da domandarsi cosa c’entri questo famoso trio con un titolo inquietante quale quello qui scelto, ma per rispondere occorrerà andare con ordine. Nascono nel 1863 due personaggi destinati a far parlare a lungo di sé; l’uno, femminile, è Margaret Murray, antropologa, iscritta al movimento delle suffragette nonchè considerata come una delle Madri fondatrici del Movimento neo-pagano “Wiccan”. L’altro è Arthur Machen, scrittore, mistico e attore di teatro, universalmente amato e apprezzato da qualsiasi intenditore del genere Fantastico che si rispetti. Che cos’hanno in comune questi due personaggi così distanti per attività e formazione? Molto più di quanto apparentemente possa sembrare, a parte una comune data di nascita, che, col senno di poi, appare ominosa. Risale al 1895 il capolavoro di Arthur Machen intitolato “The three Imposters”. Fortemente influenzato da “The new Arabian Nights” di R.I.Stevenson. Il romanzo è organizzato strutturalmente come una serie di storie dentro altre storie, episodi che si intrecciano alla trama principale e fra questi si trovano due tra i racconti più ammirati e antologizzati di Machen; “The white powder” (che per adesso non ci interessa se non accidentalmente) e “The novel of the black seal”. In quest’ultimo Machen profonde un’intuizione chiave, una di quelle “idee-fiume” o “coincidenze” Junghiane che mettono in comunicazione l’immaginazione umana con il cosiddetto “Realismo fantastico” tanto caro a Pauwels e Bergier. Machen era cresciuto nel Galles, terra ricca di leggende collegate alla mitologia di Re Artù (la cui reggia si voleva popolarmente ubicata a Caerleon On Usk) e al “Piccolo Popolo” o “Tylwith Teg”, in gallese “La Gente del Crepuscolo”, creature tradizionalmente associate al mondo sotterraneo, esseri che, nelle leggende, vivono al confine di due Mondi, il Nostro e quello degli spiriti. Machen, in questo racconto, li priva di quell’aria di innocenza e magia tanto cara al perbenismo Vittoriano, per trasformarli in una razza mongoloide dalle disgustose abitudini, ricacciata nel sottosuolo da ondate di invasori più alti e più forti. Ne fa esseri in decadenza, dall’aspetto degenerato e vagamente rettiloide, i quali, costretti a vivere relegati in grotte e dentro colline cave avrebbero sviluppato una sorta di “contro-scienza” basata, al contrario della nostra, non sulle capitali scoperte del fuoco e dell’elettricità, ma sulla mutazione corporea e sulla creazione di orribili incroci, una contro-scienza oscura e fondata su rituali e tecniche ripugnanti, tecniche che l’ignorante definisce “magiche” in mancanza di una terminologia più adatta.

Con Machen, il “Piccolo Popolo” degli elfi, delle fate e degli gnomi si sposta pertanto dai confini dell’Immaginazione ai confini della Storia ufficiale, dell’Antropologia e dell’Archeologia. Una trovata letteraria diranno alcuni, un atto provocatorio in linea con le tendenze eversive decadentiste, tese allo shock di quel perbenista mondo vittoriano che tanto Byron e compagnia disdegnarono. Sicuramente, ma Machen non è mai stato scrittore incasellabile in una singola moda o tendenza e da sempre, con le sue opere, si muovono anche altri fenomeni difficilmente classificabili. Suo fu un altro racconto, pubblicato all’interno di un’antologia successiva. il racconto (“The Bowmen”) fu scritto quasi per gioco e immaginava, durante un durissimo combattimento sul fronte della Somme, l’intervento degli spettrali arcieri di Agincourt al fianco delle truppe inglesi sottoposte al serrato fuoco tedesco. A pochi giorni dalla pubblicazione di suddetto racconto non finirono di contarsi lettere su lettere di superstiti dal fronte che affermarono di aver realmente visto gli arcieri, domandandosi come diavolo avesse fatto Machen a venire a conoscenza del fatto. Anche in questo caso previo Machen anticipò qualcosa, insinuò un dubbio nella coscienza di un popolo, quello anglosassone, da sempre interessato e affezionato alle sue leggende.


Una breve storia del “Popolo Fatato” in Inghilterra 


Risale al 1700 un libello scritto da un mite pastore anglicano assegnato ad Aberfoyle, oscura diocesi delle selvagge “Highlands” scozzesi, rispondente al nome di Robert Kirk. Il libro, dal titolo “The secret Commonwealth” , costituisce una vera e propria “Summa” religiosa sul “Piccolo Popolo” celtico-anglosassone che così si presenta: “sulla natura e sugli atti del popolo sotterraneo e quasi sempre invisibile, che prima passava sotto i nomi di Elfi, Fauni e “Fairies” fra gli scozzesi delle Basse Terre e chiamati “Hubspisgedh”, Caiben, Lusbartan, “I’ Siotbsudh” fra i Settentrionali o Scozzesi celtici, come sono descritti da quelli che hanno la seconda vista, ed ora, per suscitare ulteriori ricerche, raccolti e confrontati”. Nel suo libello, il buon pastore analizza punto per punto le maggiori credenze diffuse fra i popoli celtici riguardo al popolo fatato e riguardo le persone dotate di seconda vista (“seers”) i quali occupano da sempre un ruolo ambiguo all’interno del Folklore anglosassone. In questa vera e propria “Summa” settecentesca, che anticipa forse per rigore enciclopedico le altrettanto complete fatiche degli “Illuminèes”, vengono già trattate le caratteristiche salienti del “Popolo nascosto”, quei tratti che provengono direttamente dalla tradizione popolare celtica con la quale il mite Cappellano visse a stretto contatto, quella Tradizione cioè per nulla sfiorata dalle leziosità elisabettiane di Shakespeare (contro le quali anche la Murray si scaglierà successivamente) che dipingevano Fate vestite da damine e grandi quanto un ditale. Si legge in un passo di “The secret Commonwealth”: “Questi “Siths” o “Faires”, li chiamano “Sluaghmait” ossia il Buon Popolo (forse per prevenire l’urto dei loro attacchi ostili perché gli Irlandesi usano benedire tutto ciò da cui temono danno) e si dice che siano di una natura intermedia fra l’uomo e l’angelo”. Dunque il trattato si apre già con una nota minacciosa, dal momento che da queste genti tradizionalmente “si teme danno”, perciò ci si rivolge a loro con eufemismi allo scopo di ingraziarseli. Segue una breve dissertazione sulla natura dei corpi posseduti da queste creature, dissertazione che pare estrapolata da qualche trattato paracelsiano del ‘500 sulla natura degli spiriti intermedi o “Elementali” e che qui omettiamo. Riguardo alle abitudini alimentari del “Popolo Nascosto”, Robert Kirk annota: “… si nutrono in modo più grossolano della parte più nutritiva o sostanza di grassi o di liquidi ovvero addirittura di grano che cresce sulla superficie della Terra, e che questi “Fairies” portano via, in parte invisibilmente in parte predando il grano come fanno le cornacchie e i topi. Perciò anche in questi nostri tempi li si ode qualche volta cuocere pane, battere martelli e fare altri lavori del genere entro le piccole colline che essi per lo più abitano”. Ne emerge la colorita e “realistica” impressione di una popolazione curiosa e interessata ai metodi di lavorazione e raccolta del grano, che a volte ruba semplicemente, a volte tenta di farne pane seguendo un processo imitativo, processo che li distingue dai semplici animaletti dei campi che “rubano” semplicemente le spighe. Questo “Processo imitativo” viene ulteriormente rimarcato all’interno di un passo successivo del Kirk a proposito del “Coimjmeadh” o “Compagno di strada”, che sarebbe: “In tutto identico all’uomo come se fosse un gemello o un compagno, e lo segue a passo a passo come la sua ombra, e spesso lo si vede e lo si riconosce fra la gente (essendo simile all’originale) tanto prima quanto dopo che l’originale è morto e spesso in antico lo si vedeva anche entrare in una casa e da questo la gente capiva che la persona simile a lui li avrebbe visitati dopo pochi giorni. Questa copia, eco o ritratto vivente finisce per tornare al suo proprio gregge. Ha accompagnato quella persona così a lungo e così spesso per scopi che lui solo conosce, sia per proteggerla da assalti segreti di qualcuno del suo proprio popolo, ovvero soltanto come una scimmia giocosa che imiti tutte le sue azioni.”. Possiamo dunque anche qui salutare rispettosamente le piccole e giocose fatine vestite di fiori.
 Il “Popolo sotterraneo” a volte si mescola alla gente “comune”, sceglie dei soggetti e “copia” i loro movimenti o le loro abitudini, a volte per curiosità, a volte allo scopo di nuocere apertamente (suona inquietante quel passo relativo al proteggere il soggetto da “assalti segreti di qualcuno del suo proprio popolo”).
A proposito di queste sinistre mimesi, il buon Cappellano rincara ulteriormente la dose in un altro passo; “Il loro vestito e la loro lingua sono come quelli della popolazione e del paese nel quale vivono. Così li si vede portare “plaids” e vestiti di vario colore nell’Alta Scozia e prima d’ora “Suanochs” (specie di “Tartan” di stoffa scozzese) in Irlanda. Non parlano che poco, e questo è come un fischiare sottile, ma chiaro e non rozzo: [del resto] anche i Diavoli evocati in qualunque paese rispondono nella lingua del posto”. E ancora più avanti: “… Questi esseri escono spesso fuori, per profetizzare o per imitare gli atti tragici di qualcuno di noi, e compiono anche molte azioni funeste per conto loro come sfide, risse, piaghe, ferite e seppellimenti tanto in terra che nell’aria. Da tutti i passi fin qui riportati possiamo già riassumere alcuni tratti caratteristici del “Popolo Nascosto”, tratti che paiono estrarli dal mondo canonico delle fiabe europee così come le conosciamo; con i loro “Tom Tit Tot” e “Tremotino” per dipingerli sotto una nuova e più “realistica” luce forse (a parte speculazioni di natura mistico-teologica che vanno semplicemente lette nell’intento dell’autore, comunque appartenente al clero anglicano) o forse sotto una luce da fiaba “nera” più sinistra della precedente. L’immagine che prende gradatamente forma è quella di un popolo che ignora i principi basilari dell’agricoltura e della pastorizia (“rubano” il pane e il latte) nonché i principi del vivere civile così come li conosciamo. Ci imitano alla perfezione ma per pura curiosità, che può essere di tipo innocuo o direttamente nociva, dal momento che non hanno interesse a vivere come noi. Da altre leggende popolari raccolte dal Kirk si evince anche che il “Popolo nascosto” custodisce gelosamente i propri segreti , qualunque essi siano, e che si dimostri particolarmente vendicativo in caso di “intrusione” anche casuale, come risulta da questo e da passi consimili: “… Tuttavia quando diversi paesi non erano ancora abitati da noi, costoro li coltivavano agevolmente sopra la terra come noi facciamo ora, e il segno dei loro solchi resta anche ora e lo si può vedere sulle pendici di monti troppo alti, e ciò fu fatto quando quel terreno aperto era bosco e foresta . Essi si trasferiscono ad altra abitazione al principio di ogni trimestre, viaggiando così fino al giorno del Giudizio perché non possono sopportare di fermarsi nello stesso posto e trovano un certo sollievo a vivere senza dimora fissa ed a cambiare abitazione.



I loro corpi camaleontici nuotano nell’aria vicino al suolo con tutti i loro bagagli, ed in questi periodi di tempi i veggenti, ossia gli uomini che hanno la seconda vista (poiché le donne ben di rado hanno questa capacità) hanno incontri molto terrificanti con essi, anche sulle strade principali, e perciò essi di solito evitano di allontanarsi da casa in queste quattro epoche dell’anno e così hanno reso usuale fino ad oggi, fra gli scozzesi delle montagne, di andare in Chiesa debitamente ogni prima domenica del trimestre per venire esorcizzati, ossia purificati, insieme al loro grano e al loro bestiame contro i colpi e il ladrocinio di queste tribù vaganti.”. Il termine esattamente utilizzato è, per l’appunto, “Tribù”; ricaviamo pertanto l’immagine generale di una popolazione nomade dedita alla caccia, alla raccolta e, occasionalmente, alla rapina, la quale anticamente era usa, al pari di noi, lavorare la terra anche se mediante tecniche che noi non conosciamo e di cui sono rimaste tracce sotto forma di “solchi” (forse terrapieni preistorici?) che forse delimitarono fino in tempi recenti le loro zone di influenza. D’altro canto l’attenzione che la tradizione popolare pareva esercitare nei confronti dei famosi “colpi d’elfo” o “frecce elfiche”, fa pensare a terreni sacri o di sepoltura , come quelli delle popolazioni nomadi delle praterie americane; terreni che il “Popolo nascosto” sorvegliava a vista e la cui profanazione veniva punita con il lancio di dardi letali e dalla punta di selce (da qui la citazione biblica del Kirk su: “la Freccia che vola nell’oscurità”). Con il rema delle frecce di selce Arthur Machen costruirà uno dei suoi racconti più affascinanti, ma prima occorrerà raccogliere qualche altro indizio sui costumi e le abitudini del “Popolo nascosto”. Sempre nel trattato del Kirk più avanti si legge: “Si racconta che essi abbiano governanti aristocratici e leggi, ma nessuna religione riconoscibile, [né] amore e devozione verso Dio, il benedetto creatore di tutto. Essi spariscono appena odono invocare il suo nome o il nome di Gesù (al quale si inchinano volontariamente o perché forzati, tutti quelli che abitano al di sopra o al di sotto della terra: Filippesi, II, 10) né possono far più nulla per quella volta, dopo che hanno udito il sacro Nome.”. Su tale avversione ai riti della religione cristiana speculeranno molto sia Machen che la Murray nonché, in maniera differente, gli scrittori di Weird Tales, ma data l’artificiosità dei dati riportati a suggello di tale diceria, potremmo anche considerare questo elemento come un semplice frutto della cultura ecclesiastica che si trovò ad amalgamare i coloriti elementi della ricca tradizione celtica. Le Fate leggevano? Possedevano una cultura scritta? Sembrerebbe paradossale che un popolo nomade e semi-primitivo sia capace di elaborare anche una “èlite” intellettuale anziché solamente orale, come sarebbe logico aspettarsi, eppure il Kirk risponde affermativamente: “Si dice che abbiano molti libri di fiabe dilettevoli, ma l’effetto di quelle letture si manifesta soltanto con accessi di allegria bizzarra e coribantica come se fossero rapiti e dominati da un nuovo spirito che entrasse in loro in quel momento, più leggero e più lieto di quello loro. Hanno altri libri di significato contorto e misterioso, molto simile allo stile rosacruciano …”.

 Come accennato prima, il Kirk afferma che il “Popolo nascosto” è suddiviso in caste e possiede una sorta di aristocrazia, che l’esegesi di alcuni nomi come “Nic Intyre” (corruzione di “Nicniven”) suggerirebbe di tipo matriarcale (“Nicniven” era infatti popolarmente la Regina delle Fate, o come riportato dagli atti di alcuni processi in Scozia e Inghilterra, delle streghe). La tradizione favolistica dell’ irlandese T. Crofton Croker e le visioni con le quali W.B.Yeats affolla il suo “Celtic Twilights” paiono seguire il Kirk in tutto e per tutto, ma è evidente che le notizie relative alla Regina delle Fate costituiscono un evidente lascito della “Queen Titania” di Shakespeare, figura che fu evidentemente ricalcata su quella della Regina Elisabetta , la quale, all’epoca, veniva accostata alla “Vergine cacciatrice” Diana della cultura classica. Il paradosso costituito da una popolazione nomade, chiaramente rimasta al periodo neolitico la quale presenterebbe allo stesso tempo tratti aristocratici nonché una “élite” di intellettuali che scrivono libri oscuri ed intrisi di strana sapienza occulta, si spiega attraverso gli stessi rovelli classificatori del Kirk.
 Il buon Cappellano si trovò infatti alle prese con un vero e proprio testo di Antropologia su di un popolo occulto e misterioso, di cui sopravviveva un “corpus” orale di proporzioni vastissime e contraddittorie fatte di tracce, accenni, nonché testimonianze di personaggi come veggenti, fattucchiere e guaritrici di paese. Non deve dunque stupire che egli chiamasse a esplicare suddetto mistero anche attraverso il tipo di cultura più misteriosa ed occulta del tempo. Si era quasi nel 1700 e circolavano pertanto già da tempo tutti i libelli attribuiti alla misteriosa “Società Rosicruciana”, dalla “Fama Fraternitatis” alle “Chimische Hochzeit Christiani Rosenkreutz” (trattatello alchemico tradotto dal tedesco con “Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz”), per non parlare dei controversi trattati cinquecenteschi di Teofrast Bombast Von Hoenheim (in arte: “Paracelso”) medico e chirurgo che speculò anche sulla natura degli spiriti disincarnati dividendoli all’interno di specie basate sui quattro elementi della tradizione neoplatonica classica.


Il metodo usato da Robert Kirk assomiglia moltissimo a quello che in Italia adottò il gesuita Athanasius Kircher allo scopo di fornire una dotta spiegazione del fenomeno della “Taranta” pugliese, questo poco tempo prima del concepimento di “The secret Commonwealth”. Nel trattato “Musurgia Universalis” anche il Kircher, allo scopo di rendere ragione di un fenomeno popolare a base pre-cristiana, quale quello della “tarantata” o “ossessa” chiamò in causa la tradizione paracelsiana, la musica orfica e la filosofia neoplatonica, dimostrando che trattavasi di una “moda culturale” comune all’epoca. Domandarsi pertanto se Kirk avesse letto il Kircher o viceversa sarebbe come domandarsi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Erede letterario diretto del Kirk, sotto questo punto di vista almeno, fu la scrittrice femminista Sylvia Townsend Warner, la quale nel suo ciclo di racconti incentrati sul regno fatato di “Elfhame” ne riprese in pieno l’aristocrazia matriarcale, la speculazione rosacruciana sui “corpi sottili” o “astrali” (dunque dotati di Sali ed umori meno “materiali” rispetto ai nostri e pertanto “più leggeri” ed “aerei” oltre che con sangue meno “denso”), compresa naturalmente la facoltà di svolazzare e di rendersi invisibili da parte degli elfi, stabilendo anche alcune gustose differenze sociali all’interno della comunità fatata fra “plebei” che volano e “aristocratici” che non fanno uso di ali.
L’affresco della Warner costituisce a tutt’oggi una pietra miliare del genere Fantastico, ma fu l’unica scrittrice a mantenere intatto e coerente questo affascinante tentativo di amalgamare teorie occultistiche e archeo-antropologiche sulla natura e le origini del Popolo fatato. Machen altresì, come vedremo, attribuisce al “Popolo notturno” null’altro se non una rozza e sinistra cultura pittografica, assicurandoli saldamente alla terra e ai suoi anfratti, in questo elemento seguito a ruota dai suoi epigoni americani, ponendo apparentemente una maggiore attenzione alle origini “preistoriche” del mito del “Piccolo Popolo”, ma in realtà con un sottofondo di tipo filosofico altrettanto complesso di quello delineato dal Kirk.

Mariano D’Anza
[fine della prima parte]

mercoledì 13 aprile 2011

“L’Avidità Trionfata”. Ovvero La Tirchieria nei racconti di Jean Ray e Saki



L’amante dei Tarocchi d’autore non avrà potuto che apprezzare l’Arcano numero undici del mazzo “Crowley-Harris”, Arcano chiamato “L’Avidità”. All’interno del complesso sistema magico-simbolico di Crowley, l’erotismo assume un posto di primo piano, in quanto apre la porta a una serie di operazioni mistiche di peculiare importanza per il mago. Non deve dunque stupire pertanto, che nel suo mazzo di tarocchi (o “Libro di Toth” come amava chiamarlo) ciò che nei tarocchi marsigliesi sarebbe la semplice “Forza” (arcano numero undici, raffigurante una fanciulla colta nell’atto di aprire la bocca a un feroce leone), nel “suo” venga raffigurato come una delle tante “Donne Scarlatte”, ovvero come una donna lubrica adagiata sulla schiena di una bestia semiumana mentre stringe fra le sue mani nervose la “Coppa di Babalon”, il calice ricolmo di ogni immondizia e bassezza che proviene dalle umane passioni, tal come viene descritto nell’Apocalisse di Giovanni di Patmos. Se dunque l’Avidità corrisponde a quanto di più basso possa albergare nel cuore umano, Crowley sembra anche volerci dire che è una passione fra le più primordiali, e siccome “Passione” deriva dal verbo latino “patior” (soffrire o subire) è anche uno dei demoni più potenti che da sempre infesta il nostro destino. Inserita nel Cristianesimo fra i peccati mortali, anche se con scarso successo, l’Avidità ha una lunga storia. Messa alla berlina da Erasmo da Rotterdam è divenuta pretesto per lo sterminio di interi popoli, salvo poi riprodursi, rinnovata e più potente di prima, ai nostri giorni, fino ad assurgere ai fasti che Collin de Plancy, nel suo “Dictionnaire Infernal”, riservava in esclusiva al Demone “Mammon”, detto anche “Principe di questo Mondo” di evangelica memoria. Due fra gli scrittori del Fantastico più versatili, misteriosi e poliedrici che la letteratura “di genere” possa vantare, hanno deciso, a loro tempo di mettere alla berlina, questa scomoda onnipresente passione, due scrittori nelle rispettive personcine di Jean Ray e Hector Hugh Munro, meglio conosciuto con il suo nome d’arte; “Saki”. Due personalità estremamente diverse, la prima, nome all’anagrafe Jean Raymond de Kremer, ammantata da un avventuroso mistero esistenziale che il personaggio vivente contribuì ad alimentare, una personalità che dovrebbe annoverare, tra le proprie vicissitudini, quella di contrabbandiere, ladro, pirata, “Viveur” e, infine, domatore di leoni, l’altra quella certificata di “Dandy” sofisticato e scrittore “sulfureo” alla Thomas De Quincey. Scrisse Borges di Saki: “Come Thackeray, come Kipling e come tanti altri inglesi illustri, Hector Hugh Munro nacque in Oriente e conobbe in Inghilterra la solitudine di un’infanzia vissuta lontano dai genitori, e nel suo caso severamente vigilata da due rigide zie. Il suo nome, Munro, è quello di un’antica famiglia scozzese: il suo pseudonimo letterario, Saki, deriva dalle Rubayyat (la parola che in persiano significa coppiere). Secondo la testimonianza della sorella Ethel, le zie tutrici, Augusta e Carlotta, erano imparzialmente detestabili; il fatto che odiassero gli animali può non essere estraneo all’amore che Munro sempre manifestò per essi …”. Scrive invece Jean Ray di sé stesso nel suo racconto autobiografico: “Mon Fantome a moi” (il mio fantasma e me): “Un giovedì mio padre venne a trovarmi: passai con lui alcune ore, ore di libertà e di ozio. Pecq, in quell’epoca, era un villaggio abbastanza isolato dalle linee ferroviarie, di modo che durante il pomeriggio accompagnai mio padre alla stazione di Espierre, situata a più di una lega di distanza dalla scuola.
Il giorno era stato radioso, come un anticipo della prossima estate; il sole discendeva verso l’immenso occaso e accendeva sulla piana turnasiana un braciere da apoteosi. Seguivo senza fretta un sentiero punteggiato da cespugli che pareva allungarsi fino all’orizzonte. Ero solo, epicentro della splendente estensione, e, ignorandone il perché, sperimentavo una forma di orgogliosa allegria. Ed avvenne che all’improvviso, senza averlo udito giungere, mi incontrai quasi faccia a faccia con un ometto che sfoggiava un panno rosso al collo. Lo riconobbi subito, e immediatamente formulai tra me e me la stessa domanda che mi ero posto le volte addietro: “sarà malvagio?”. Il fatto sta che in quel periodo io ero un ragazzino dal comportamento un po’ difficile, fatto che i miei maestri attribuivano a una forza fisica che non avevo alcuna remora a manifestare. I miei sentimenti, che radicavano in quel brusco incontro, dovettero essere abbastanza complessi. Non so se ebbi paura, non lo credo, ma sono sicuro che volli dimostrare che “sicuramente” non provavo paura. Avanzai verso di lui, incitandomi alla collera e animato dalla ferma intenzione di insultarlo o, addirittura, colpirlo”.
Nel caso di Saki , l’Avidità, nonché la rigidità di sentimenti manifestata dalle zie trova la sua migliore rappresentazione nel racconto semi-autobiografico “Sredni Vashtar”. E’ l’avidità che spinge la Zia del malaticcio Corradino a privarlo di tutti i suoi svaghi e le sue ore di felice immaginazione, allo scopo di affrettare la consunzione e la susseguente depressione e così impadronirsi della sua ricca eredità. Avidità che la spinge persino a privarlo della sua gallinella-mascotte. Ma tutto cambia allorquando la Zia rapace, viene a conoscenza del furetto personale di Corradino, animale al quale l’infermo bambino dedica un culto privato, Sredni Vashtar appunto, supplicato di porre fine, coi suoi poteri divini alle angherie dell’avida parente ed allorquando la donna tirannica tenta di disfarsi anche di lui, la risposta del Dio non si fa attendere. Memorabile la scena nella quale il fortunato Corradino festeggia la dipartita della parente in un tripudio di sandwiches imburrati. Gli avidi sono l’argomento preferito da Saki e non importa il fatto che appartengano o meno alla grigia genìa di banchieri e possidenti della “City” o all’altrettanto pittoresca e squattrinata fauna della nobiltà decaduta e rapace. Il Van Cheele di “Gabriel Ernst (che per inciso è anche uno dei più bei racconti di Lupi-mannari mai scritto), appartiene decisamente a questa prima categoria e subisce in pieno le conseguenze della propria latente e imbalsamata avidità. E’ la gelosia dei propri possedimenti, misurabili in ettari di bosco da utilizzare per battute di caccia (filistea attività anglosassone “Tout Court”) a spingere Van Cheele a apostrofare duramente il ragazzo nudo e ferino dal sorriso lupesco con il monito a “non gironzolare per i suoi boschi”. Il lupo mannaro compare allora in casa sua per divorarsi il figlio di un suo fittavolo e uscire conseguentemente di scena lasciando l’impressione di aver dato la vita per salvarlo da morte certa, suprema beffa, suprema punizione in omaggio al detto evangelico “Sarà dato a chi non ha e a chi ha, sarà tolto anche quello che ha”. Alla seconda categoria appartiene invece la baronessa protagonista del racconto “Esmè”. Costei e la sua amica Costanza Broddle assistono ad una battuta di caccia (l’ennesima) che vede protagonista una iena addomesticata fuggita dal giardino zoologico di un ricco eccentrico. La iena, abituata all’umana gentilezza, finisce per seguire le due amazzoni come un fedele cagnolino e così si comporta salvo sbranare e divorare, davanti ai loro occhi attoniti, un bambino zingaro. Attraversando la strada carrozzabile, la iena viene investita dalla “Rolls” di un altro ricco eccentrico e la Baronessa … non esita neppure per un momento, nonostante la ferina crudezza alla quale ha assistito, a reclamare risarcimento per la perdita del “Suo prezioso animale”, ottenendo in cambio una spilla di diamanti in filigrana, il ricavato della quale vendita (misurabile in sterline sonanti estremamente necessarie, visto lo stato di evidente indigenza della suddetta) la Baronessa si rifiuterà di condividere con l’amica, alienandosene così la stabile (e interessata) amicizia.



Jean Ray assume al contrario un tono decisamente più tetro ed esplicito al momento di punire o meno i suoi “Tirchi”. Nel racconto “Joshua Gullick, strozzino” contenuto nella raccolta “Les contes du Whisky”, si narrano le vicissitudini di uno strozzino di origini ebraiche duro, spietato e senza cuore che incappa nel giusto castigo. Il tenore del racconto si fa chiaro e palese in questa allocuzione che è propria e personale di Jean Ray, una di quelle intromissioni del narratore nella storia che sono il suo personale suggello narrativo: “…il fuoco domestico mi circonda di amichevole splendore, una comoda poltrona accarezza le mie membra, il liquore divino brilla deliziosamente in una caraffa di cristallo lavorato e, nel marmo oscuro di un alto camino, molto alto, appare questa iscrizione: “Dio castighi gli usurai!”
Per disgrazia tutta la mia ricchezza è lì, nella città dei miraggi; la mia stufa ha l’abitudine di arrossarsi più per l’ossido che non per le fiamme e l’iscrizione del mio disprezzo non è scritta in lettere d’oro nello splendido marmo di un camino, piuttosto nella carne dolorante del mio cuore … e ogni notte la mia preghiera porta a Dio il grido del mio cocente odio – Dio castighi gli usurai!”
Il castigo ovviamente non si fa attendere. Un giovane propone all’esoso Joshua Gullick di estinguere il suo debito con un anello molto particolare. Lo strozzino accetta e si pone l’anello al dito della mano destra. Tutto sembra andare come sempre, ma di repente la mano destra incomincia, per suo conto, a gettare nel fuoco cambiali e pagherò a estinguere debiti e scrivere testamenti nei quali Gullick lascia ogni suo avere ai poveri della città. Inutilmente l’usuraio tenta di occultare con la sinistra la mano “invasata” dal magico anello, questa la ritorce animata da una forza soprannaturale, la sloga, la spezza e infine raccoglie una pistola per dare allo strozzino, redento suo malgrado, un’orribile morte. Quasi la stessa vicenda pare svilupparsi nel racconto: “Il quadro”. Vi si narra di Gryde l’usuraio: “cinquemila uomini furono con lui debitori. Fu la causa di dodici suicidi, nove crimini sensazionali, innumerevoli bancarotte, rovine e disastri finanziari”. Attraverso tali mirabolanti descrizioni, Jean Ray insinua nel lettore una riflessione sul “potere” che questi avidi usurai esercitano sul mondo e sulle persone, il potere di controllare destini e vite che ubriaca tanto quanto quello di possedere del denaro, denaro che comunque costoro non spendono, occupati come sono a rotolarsi nel brago della loro stessa diabolica possessione. Il povero Warton, artista di belle speranze, regala a Gryde un quadro non terminato, in cambio di un terzo delle sterline di cui è debitore con lo strozzino. Si impegna inoltre a pagargli le restanti in quantità di dieci ogni mese, nonchè a terminare il quadro e a dargli un titolo. Il quadro rappresenta un bellissimo giovane, ritratto adagiato su di una nube rosata. Ma Warton non può pagare, così Gryde fa confiscare tutti i suoi beni. Il giovane allora si suicida insieme alla madre malata e lascia un biglietto per Gryde: “Le promisi di dare un titolo al quadro – lo chiami “Vendetta”- Per quanto invece riguarda il terminarlo, stia sicuro che manterrò la parola”. Ogni giorno il quadro si arricchisce di particolari da solo, come toccato da una mano invisibile, fin quando il giovane non esce dal quadro stesso per afferrare un pugnale. Ognuno completi il finale con l’ausilio della propria immaginazione. Saki è tanto cinico e beffardamente sottile con i suoi personaggi, quanto Jean Ray è brutale, pirotecnico e diretto con i suoi usurai, ma la sostanza è la stessa. Tutti e due si compiacciono, come implacabili Demiurghi, di torturare noi lettori con le sadiche nequizie operate dall’avidità delle loro creature e di torturare le suddette creature con soprannaturali, assurdi castighi. Poco importa che gli usurai di Jean Ray siano ricordi di vicissitudini più o meno vissute dal loro istrionico creatore, l’effetto è sempre lo stesso, ma insinua in noi un dubbio di tipo etico. Quanto c’è di noi in quei tristi, invasati personaggi? Personaggi che Erasmo da Rotterdam stesso non avrebbe potuto ritrarre meglio nei suoi “Dialoghi”.

Mariano D’Anza


Bibliografia:
La Biblioteca di Babele, a cura di J.L. Borges: “Saki”- Franco Maria Ricci ed. 1992
Saki: “L’insopportabile Bassington e altri racconti” Ed. Einaudi 1982
Jean Ray: “Les contes du Whisky” ed. Spagnola in “Obras Escogidas” ed. Acervo, Barcellona 1966

lunedì 11 aprile 2011

"Green Snake": Il cinema Fantastico di Tsui Hark

Quando John Keats scrisse il suo bel poema “Lamia”, nel 1819, aveva in mente alcuni temi ben specifici. Riprendeva la famosa leggenda riportata da Flavio Filostrato nel suo “Vita di Apollonio di Tiana”, affascinante figura di profeta “pagano”, quasi in opposizione al Nazareno dei cristiani ed al famoso episodio durante il quale il mago greco Apollonio libera uno dei suoi discepoli dalla nefasta influenza di una Lamia, una creatura metà donna e metà serpente, dedita al cannibalismo a votata alla perdizione di uomini giovani e nel pieno del loro vigore. Keats mondò la leggenda greca di tutte le sue componenti “orrifiche”, presentando una Lamia che è più dea che “spauracchio” o orchessa, come la “Vita” di Filostrato sembra mostrarcela, innocentemente innamorata di un mortale e per il quale Essa è disposta a scendere dal suo Iperuranio per incarnarsi nel perituro mondo dei mortali. Nel poema di Keats i ruoli sono rovesciati rispetto alla leggenda. Lycio è un personaggio tormentato e debole di fronte alla possanza di questo amore divino, Lamia una figura tragica e immortale, tipicamente romantica, mentre Apollonio perde i tratti taumaturgici della Leggenda per acquistare quelli del censore prosaico e puritano che condanna l’amore in nome del buonsenso e delle regole sociali. Keats aveva in mente la caducità della bellezza, la sua ispirazione divina e illuminante destinata al crepuscolo ed all’offuscamento, come sarebbe terminata la sua giovane e precoce vita, tutti questi temi ed altri ancora si trovano nella meravigliosa riduzione cinematografica di Tsui Hark. Le vicissitudini attuali del merchandising cinematografico ci hanno letteralmente invaso di visioni dell’estremo Oriente, facendoci forse illusoriamente credere che tale boom intervenga a colmare una crisi oramai endemica di idee all’interno del cinema Hollywoodiano. Ma si tende a dimenticare che il cinema di genere fantastico estremo-orientale era attivo e foriero di ispirazione per i cineasti statunitensi (e vice-versa) già dagli anni ottanta e con risultati tutt’altro che mediocri. Fu lo spassoso "Mr Vampire" del 1985 e per la regia di Geung Si Sin Sang a riuscire dove non era riuscito il "Fearless Vampire Killers" del 1967 di Roman Polanski, ovvero in quella miscela di Humor, atmosfere horror-fantasy e commedia che solo un buon regista e degli attori versatili riescono a raggiungere e, al contrario, fu proprio Tsui Hark a ispirare con il suo spettacolare "Zu: Warriors from the Magic Mountain" del 1983 il flop cinematografico (flop per colpa dei gusti statunitensi non ancora pronti per il cinema di Hong Kong e non per il film che rimane a tutt’oggi un “cult” ottimamente concepito) di John Carpenter. Tsui Hark è regista imaginifico, fortemente ispirato e incline a scenografie grandiose, combattimenti spettacolari e effetti speciali mirabolanti, il tutto condito da un’atmosfera onirica e rarefatta che neppure le ultime magniloquenti creazioni di Zhang Ymou (Hero, Forbidden City) riescono a surclassare. In Green Snake troviamo tutto questo, mentre la sceneggiatura della scrittrice cinese Lillian Lee (che ha sceneggiato anche il discusso “Farewell my concubine” di Chen Kaige), confeziona per noi una storia che è incubo sensuale e delirio fantastico, dove confluiscono tutti i temi ambigui e affascinanti che formano da sempre la mitologia occidentale del serpente. Il pretesto lo fornisce un racconto popolare cinese: “The White snake” al quale la Lee si ispira, per rovesciare subito i ruoli ed affidare il ruolo principale alla “Lamia” stessa, Xiaoqing, o meglio, a una delle due Lamie sorelle. La Lee e Tsui Hark fanno però perno sull’immaginario occidentale quando concepiscono "Green Snake" (1993) piuttosto che sulla leggenda Cino-Indiana delle “Nagini”, donne-serpente di origine semidivina e dotate di sovrannaturali poteri di seduzione. Due “Nagini” si installano in una città umana alla ricerca dell’amore perfetto, proprio come nella “Lamia” di Keats ed esattamente come nel poema l’Apollonio orientale non tarda a tagliare loro la strada, nella figura di un monaco bacchettone e dotato di spaventosi poteri mistici, simbolo della ragione che “taglia e separa” nella più pura tradizione Junghiana. Contrariamente al poema di Keats, nel film di Tsui Hark le Lamie sono una rappresentazione della sensualità pura e libera, contrapposta alla moralità astringente, dogmatica ed autoritaria. Le “Nagini” squadernano davanti ai nostri occhi affascinati trasformazioni impossibili, feste per i sensi e per la vista, fiori di loto che si illuminano come lampade nella notte della città, veli che si attorcigliano su sé stessi fino a formare figure indefinibili, giochi d’acqua e di serpenti immensi che si mutano in languide fanciulle scendendo da tetti spioventi. La scena nella quale il fortunato e stolido oggetto delle attenzioni della Nagini, il nostro Lycio cinese, assiste alla prima trasformazione delle dee in una tinozza d’acqua, ripropone ai nostri sensi increduli la leggenda medievale di Melusina, donna fatata metà serpente d’acqua e metà vogliosa fanciulla, rappresentazione perfetta ai nostri occhi occidentali della sensualità femminile vista come pericolosa e ambigua, legata alle acque, elemento mobile in continua metamorfosi, che a volte assume i tratti della fascinazione mortale, mentre la scena di “tentazione” del Monaco nel paese dei Nagas, creature ibride e lussuriose è degna delle “Tentazioni di Sant’Antonio” di Hyeronymus Bosch per potenza plastica e visionaria. Ma dove Tsui Hark dà il meglio di sé è nelle scene del più puro cinema “Wu Xia” (traducibile come il nostro “Cappa e spada”); Immense colonne d’acqua evocate dalle Nagini si abbattono sulle montagne volanti evocate dal Monaco, guerrieri superumani si scontrano con Gru divine dotate di poteri immensi, mentre sempre un agguerrito monaco insegue gli spiriti dei boschi con sigilli fiammeggianti e spade soprannaturali, non facendoci per nulla rimpiangere i fasti di “A chinese Ghost story” di Ching Siu Tung. Ultima fatica di Tsui Hark, un film che ha necessitato di 7 anni di lavorazione ed è infine uscito nel 2010: “Detective Dee and the Mystery of the Phantom Phlame”, un Wuxia-Mystery dove, purtroppo o per fortuna ai fini della trama, l’unico elemento sovrannaturale è costituito dall’abilità e dall’astuzia dei protagonisti, anche questo da non perdere …

Mariano D’Anza