La Trappola
Viso affilato, colorito anemico
Marco
Arrigoni represse un brivido e si reimmerse nella lettura del manoscritto. Era
difficile capirci qualcosa, la grafia non era delle migliori, ma questo lo
aveva già calcolato. La vera difficoltà stava nell’estrapolare la parte che
maggiormente gli interessava da una profusione caotica di note marginali,
piccoli disegni infantili e cancellature. Arrigoni sapeva bene che qualcosa non
quadrava, l’intera vicenda aveva un disegno complessivo tutt’altro che lineare,
per questo aveva accettato il caso. Il personaggio che, appena un giorno prima,
gli aveva messo in mano l’incartamento, era stato un uomo sulla quarantina,
viso affilato, colorito anemico, capelli color paglia che cominciavano a
diradarsi sulle tempie e quel quaderno tozzo e voluminoso portato strettamente
incastrato sotto l’ascella destra, quasi come se cercasse, con quello scomodo
fardello, di tenere alla sua giusta altezza la spalla magra e spigolosa.
Arrigoni era rimasto subito catturato dagli occhi del visitatore,
innaturalmente grandi, tondi, di un bel blu scuro e sempre umidi, come a causa
di un’irritazione o semplice indizio di una prolungata assenza di sonno. “Marco
Arrigoni vero? Piacere …” gli aveva detto a mò di presentazione, con voce
incolore e accompagnando la frase di cortesia a una stretta di mano debole ed
insicura. “Devo dirle che, in principio, non avevo molta fiducia in lei … non è
stato per malafede, tutt’altro mi creda … è che non sono sicuro del fatto che
qualcuno possa davvero aiutarmi …”. Arrigoni si era permesso di annuire
comprensivo, quel tipo di approccio era per lui talmente familiare da superare
la banalità per entrare direttamente nel campo della noia. Il soggetto stava in
realtà dicendo: “Sono venuto qua perché la consulta mi costava meno che dallo
strizzacervelli. Non credo a una parola di quello che mi dirai o stai per
dirmi, voglio solo essere ascoltato e, se possibile come spero, divertirmi un
po’ a tue spese”. Arrigoni sapeva bene che per molti soggetti ridere alle
spalle del prossimo costituiva già di per sé una forma di sollievo, seppur
temporanea, e quell’accenno di sorrisetto sull’angolo della bocca del
visitatore era un’ulteriore conferma di quanto già conosceva riguardo alla
media della sua “clientela”. “Tengo a precisare una cosa prima di
incominciare”, era stato allora il suo turno di ribattere, come da prassi in
fondo: “Innanzitutto non accetto tutti i casi che mi vengono proposti, solo
quelli diciamo … che ritengo più specificamente “affini” ai miei peculiari
interessi . Spiegarle poi in che consista tale genere di interessi non ha la
minima importanza, né nel caso in cui decidessi di occuparmi di lei, né
tantomeno a livello di semplice scambio di informazioni fra me e lei. In altre
parole, prima e più succintamente possibile mi espone il suo problema, più
presto farò a dirle se la cosa mi possa interessare o meno. Della tariffa per
una consulta introduttiva si sarà già informato leggendo l’annuncio, questo
passo possiamo tranquillamente saltarlo. Per quanto invece riguarda il mio
compenso, nel caso decidessi di occuparmi di lei, beh … questo varia a seconda
della gravità del suo problema. In alcuni casi, e mi creda se le dico che ciò
non è infrequente che accada, non chiedo nessun tipo di compenso …”. A questo
punto Arrigoni si era permesso il lusso di una breve pausa, di solito di sicuro
effetto su ciarlatani e perditempo. L’avidità, in fondo, era una delle passioni
umane più universali, ed un’affermazione simile scioglieva dubbi e lingua a
qualsiasi soggetto, che si trattasse di semplice paranoia o di casi ben più
gravi. Ma non aveva riscontrato nessuna reazione da parte dell’uomo, nessuno
scintillio interessato in quegli occhi grandi, né di assenso né di sorpresa,
così si era sentito in dovere di continuare: “La prassi da me stabilita prevede
inoltre, qualora fossi realmente interessato a ciò che mi dirà, il suo consenso
a sottoporla ad una serie di test psicologici. La natura dei casi di cui mi
occupo contempla una netta differenza fra disturbi di origine psicotica e
disturbi diciamo … di natura “differente”. Ciò detto si era inclinato
leggermente in avanti, mossa un po’ teatrale ma sempre valida: “E’ tutto chiaro
finora?”. Anche in questo caso nessuna reazione, l’uomo si era limitato ad
annuire, ma Arrigoni, come sempre, si era sentito a quel punto di concludere la
presentazione a modo suo: “Adesso lei si sta chiedendo …” esordì con voce piana
e senza inflessioni: “Se questo tizio ci tiene tanto a dimostrare di non essere
un ciarlatano, perché si fa pagare la consulta iniziale?”A quelle parole una
reazione c’era stata eccome. L’uomo aveva ritratto la testa stretta e affilata
spalancando gli occhi ancora di più: “Come faceva a saperlo?”, reazione
spontanea, aveva pensato Arrigoni, nessuna frase di circostanza, primo test
positivo. L’uso deliberato della psicometria lo liberava di un buon venti
percento di seccatori, nient’altro che un trucco da mentalista, ma di sicuro
effetto su soggetti superficiali. Arrigoni si era ritrovato a pensare più di
una volta al fatto che la maggior parte della gente sarebbe fuggita a gambe levate
se solo si fosse mai preso il disturbo di spiegare loro come avesse ottenuto
quello ed altri “doni” … ma a quel punto scelse, come sempre, di ignorare la
domanda: ”Pensi a questo” continuò impassibile con un aperto sorriso: “se non
avessi fisato alcuna tariffa per la consulta, lei mi avrebbe preso sul serio?”,
l’altro si era limitato ad annuire …
Un uomo di nome Esposito
Il
soggetto aveva un nome: Francesco Esposito. Il cognome costituiva un problema,
in quanto diceva tutto e niente. Gli “Esposites” erano moltissimi nel sud
–Italia (Francesco era infatti di origini calabresi), poveri bambini di
estrazione eterogenea, partoriti da ragazze-madri ed abbandonati fin dal
Medioevo, nelle “ruote” dei conventi perché ricevessero cibo, accoglienza e,
quando fortunati, un’istruzione. Impossibile pertanto risalire ad un albero
genealogico riconoscibile, allo scopo di capire se altri in famiglia avessero
subito l’influenza di “disturbi” consimili a quello del soggetto, se cioè ci si
trovasse in presenza di qualche caso di “atavismo”. I suoi genitori avevano
viaggiato per mezza Italia per motivi di lavoro, finendo per stabilirsi in
quella città. Francesco ricordava poco di quel periodo “errante”, solo i molti
traslochi e qualche lacrima versata ad ogni nuovo abbandono di compagni e vari
istituti. A suo dire, si era sempre sentito diverso. Aveva vissuto gran parte
della adolescenza in quella città, ma non si era mai sentito “integrato”.
Persino all’Università tendeva isolarsi in un mondo tuto suo, fatto di letture
particolari e musica “eclettica”. Fin lì tutto normale. Arrigoni aveva rilevato
solo una sindrome da spaesamento, tipica in soggetti abituati a spostarsi molto
durante l’età formativa, ma per scrupolo di coscienza aveva voluto comunque
sottoporlo ad un breve test di Rorschach, con alcune immagini basiche. Niente
di preoccupante. Francesco rivelava un’immaginazione particolarmente sviluppata
ma nella norma, e la sua riflessione sui “meridionali che faticavano ad
integrarsi laggiù” era da intendersi solo in senso di discorso di circostanza.
Era stata invece un’altra frase da lui pronunciata a far scattare il personale
campanello di allarme di Arrigoni: “Questa città esercita una strana attrazione
sulla gente. Vuole darti un ruolo a tutti i costi, anche se tu fai di tutto per
non averlo …”. Quando, un anno prima, Arrigoni si era trasferito laggiù, come
sempre a causa di quel genere di intuizioni che, per lui, non erano mai
casuali, si era documentato ampiamente sulla storia di quella città. Il libro
che Cernusco, suo mentore e maestro, gli aveva affidato prima di partire alla
ricerca di un mistero più grande anni prima, parlava chiaro delle città a
piante circolare o “Mandalica” come quella.
Grand
Grimoire
“Questa particolare
tipologia di agglomerato urbano, tipicamente medioevale …” recitava il libro: “
… possiede sempre una rete fognaria ampia e ramificata, spesso costruita in
tempi antichi ed ampliata ulteriormente durante il Medioevo. Sono quelle città
di tipo più “antropomorfo”, quelle cioè dove l’architettura è studiata affinchè
non vi sia soluzione di continuità fra il “corpus”
architettonico ed il corpo umano fatto per abitarvi ed interagirvi. In tali
casi la sede del Comune o il Palazzo Ducale rappresenterà la testa, la
Cattedrale il cuore e le fogne, le viscere …”.
Arrigoni
era stato costretto a riconoscereche Nietzsche aveva avuto ragione
nell’affermare che la Civiltà si basa sempre su di un fatto di digestione. Se
la rete fognaria era particolarmente estesa, ciò voleva dire che la città si
compiaceva in robuste attività gastronomiche e mangiare pesante produce sempre
sonni inquieti ed incubi. Poi, finalmente, era venuto fuori il diario.
Francesco aveva confessato, non senza imporporarsi, di aver conosciuto una
ragazza e che da quando l’aveva conosciuta si era sentito invadere da “un senso
di oppressione e di anticipazione”. “Questo genere di incontri spesso produce
un simile effetto” aveva commentato Arrigoni nell’intento di sondare
ulteriormente quell’ultima affermazione. Ma l’uomo aveva scosso gravemente la
testa: “Mi sento più come se una bestia mi avesse braccato finora e,
finalmente, mi avesse trovato”. Era un’affermazione troppo definitiva per
ignorarla. “Ho scritto tutto in questo diario”, aveva poi detto fissandosi i
piedi, calzati in due Clark evidentemente consunte. Arrigoni aveva subito
pensato che fosse il Diario lo scopo della visita, sapeva bene che al mondo (o
“nei Mondi” avrebbe detto Cernusco) esistono cose che si possono solo scrivere,
parlarne è inutile. Da lì il senso di impotenza che Francesco aveva dovuto
subire, durante colloqui precedenti. Per un qualsiasi psichiatra, un diario è
un diario e basta, un coacervo di note marginali al “Grand Grimoire” della
psicosi, ma per uno come lui era uno spiraglio aperto su di un mondo a parte,
con le sue regole e le sue leggi e lui probabilmente doveva saperlo meglio di
tutti. “Senta” aveva poi esordito l’altro fissandolo con quegli occhi
innaturalmente grandi: “Non farei leggere questo diario a nessuno. Io stesso
evito accuratamente di soffermarmi su certe pagine ancora adesso, a distanza di
tutti questi anni. Parecchie le ho anche strappate, ma non lo faccio più perché
tanto so che tornerei a scriverle identiche dopo qualche giorno, magari
svegliandomi la mattina, dopo un sonno particolarmente agitato … Se vuole
davvero aiutarmi gli dia un’occhiata. La pagherò per il tempo perso stia sicuro
…” Arrigoni aveva liquidato con un gesto eloquente l’ultima affermazione: “Non
prevedo alcun compenso per la semplice lettura di un diario. Forse uno
psicologo le sarebbe più utile, loro non hanno l’abitudine di leggere
privatamente questo genere di “confessioni”. Potrebbe addirittura leggerlo
insieme a lei ed aiutarla a commentare certe parti che lei ha definito “oscure”
se non erro …” Esposito a quel punto lo aveva guardato con un’aria che era di
vera e propria supplica: “Ci sono già stato da uno psicologo, anzi … se vuole
saperlo da più di uno, e sono stanco di farmi tirare fuori sempre le stesse,
solite fandonie su manie di persecuzione e tentativi di lavorare sul mio
“complesso di colpa”. Io “so” che qualcosa non quadra e, per quanto lo ripeta,
non ho trovato ancora nessuno disposto a credermi veramente”. Arrigoni se l’era
aspettato, ma aveva comunque voluto una conferma, per quanto vaga. Aveva
imparato col tempo ad andarci cauto, anche quando il suo istinto suonava le
campane a distesa: “Facciamo così”, aveva ribattuto. “Non prenderò alcun
compenso per leggere il suo diario, ma ne fisseremo uno nel caso dovessi occuparmi
di ben altro … cosa che comunque non credo di dover fare. Forse quanto le sto
dicendo non rientra esattamente in quello che lei si immaginava, ma mi creda se
le dico che spesso, sotto i fatti apparentemente più assurdi si cela sempre una
spiegazione ben più semplice di quanto possa sembrare in principio. Dico questo
più per rassicurarla che non per deluderla”. Aveva poi allungato la mano perché
Esposito la stringesse “Siamo d’accordo?”, l’altro aveva risposto al gesto con
un accenno di sorriso sulla faccia pallida: “Lei lo legga, mi raccomando, è
tutto ciò che le chiedo … se ne accorgerà presto che le cose non quadrano …”
Arrigoni lo aveva fissato per un lungo istante: “Vedremo …”.
Potenze diaboliche, forse …
Troppo
coinvolgimento. Aveva capito da subito che la faccenda non aveva le dimensioni
giuste. Non era un caso grave, doveva attenersi ai fatti e i fatti non avevano
rivelato nulla di anomalo. Arrigoni imboccò inquieto un vicoletto parallelo
alla stazione. Passeggiare in prossimità dei treni lo faceva sentire sereno, lo
aiutava a pensare. A volte gli bastare udire il fischio del capostazione e lo
stridio dei cerchi sulle rotaie per sentirsi sereno e in pace con il mondo. In
fondo aveva trascorso sui treni gran parte della vita, cosa avrebbe potuto farlo
sentire più a suo agio di un treno? La testa si lanciò nelle sue associazioni
spontanee, aveva bisogno di riflettere. Manie di persecuzione, giusto, quasi
sicuramente rinfocolate da figure familiari. Era ragionevole pensare ai
genitori, forse il padre? Le famiglie del sud tendevano a essere ancora
“tradizionaliste” in questo senso. Arrigoni sapeva bene che non si trattava di
un mero fatto economico ma di un fenomeno che coinvolge anche la sfera degli
affetti; il Padre è il “riferimento” della Famiglia, dunque il centro del
ciclone. Conflitto possibile con il padre ,quindi, probabilmente scatenato e
riacutizzato quando Esposito aveva conosciuto la ragazza. A pensarci bene, lo
aveva più volte ribadito “Non integrarsi”, il terrore dello straniero, o la sua
“arma” favorita, il terrore di non essere accettato … o il vantaggio di non avere radici? Se
davvero si trattava di questo veniva da chiedersi che cosa sarebbe successo nel
caso in cui Esposito avesse incidentalmente scelto di risolvere violentemente
questo conflitto interiore, magari facendo del male alla ragazza … no,
decisamente no. Arrigoni non aveva notato nessun atteggiamento violento
nell’uomo, più di muta rassegnazione, la rassegnazione di una persona abbattuta
ed esausta … la rassegnazione di una “vittima” … Ancora fuori strada. Cernusco
glielo ripeteva sempre: “Fai in modo di non vedere ogni cosa che richiami la
tua attenzione come una conferma o come una smentita di quello che “tu” pensi,
attieniti ai fatti e solo a quelli”. Fatti si. Era per i fatti che si era
trasferito in quella Città. Era per qualcosa di più di un accenno, proveniente
da persone che lui stesso esitava a definire appartenenti al “genere” umano,
una traccia lasciata da Potenze terribili e diabolicamente astute, qualcosa che
portava a “quella” Città. Era per questo che aveva posto quell’annuncio sul
giornale locale, il cui direttore era stato un tempo in affari con suo padre,
una maniera originale per informarsi su di un sospetto, senza richiamare troppo
la “Loro” attenzione. Forse Esposito era quello che cercava, forse no, glielo
avrebbero detto “i fatti”. Fu così che Arrigoni fece un brusco dietrofront,
quasi investendo con la sua figura sparuta una anziana signora e riprese la
strada verso il suo studio. Per andare a leggere un “Diario”.
Loro
Adesso,
si trovava alla scrivania di mogano, nello studio, le narici lievemente
irritate a causa dell’incenso all’oppio il cui bastoncino, per metà
completamente consumato, rilasciava nell’aria volute di fumo azzurrino, grasse
e oleose alla base, rarefatte ed acri verso la cima, a rileggere parti del
diario. Arrigoni sapeva che bruciare oppiacei era una maniera come un’altra,
fra quelle più semplici, per riconoscere se qualcosa nascondesse più di quanto
rivelasse. Almeno nella sua testa. Si ritrovò a pensare, con una punta di
nostalgia, che Cernusco non avrebbe mai approvato quel metodo. Ma in quel caso
non c’era stato alcun bisogno di altri stimolanti per far scattare il proprio
personale campanello d’allarme con echi gelidi, su e giù per la sua spina
dorsale. Ritornò ancora una volta su di un passaggio particolare. “Sempre su
quella maledetta strada! Quest’estate aspettavo vagabondo il famoso “compelling
signal” e non passa neppure mezz’ora che conosco Laura. Avrei dovuto capire ma
niente, la solitudine mi ha fregato ancora una volta. Questa è una razza
maledetta, farebbero di tutto per metterti i loro tentacoli addosso, hanno
tutto il tempo del mondo e possono aspettare loro …”. Non era affatto l’unico
passaggio ad esprimersi in quel tenore. Arrigoni aveva scorso varie pagine
addietro, pagine che parlavano della vita universitaria di Esposito;
appuntamenti con ragazze, lavoretti occasionali. Solo cinque anni prima, per
quello che appariva dalle pagine del diario, Esposito non era ancora arrivato a
comprendere il fatto che molti accadimenti della sua vita fossero collegati a
quel luogo in particolare, ovvero la Via principale del quartiere
universitario. Il primo collegamento “cosciente” risaliva ad una pagina di
almeno tre anni addietro e così riportava. “Tutto qui. Sempre su questa strada.
Anche se ho cambiato residenza, anche se adesso vivo e lavoro in un’altra zona
è come se mi trovassi qui”. Esposito aveva anche lui viaggiato molto. Il Diario
riportava di borse di studio vinte in Austria, Olanda, Inghilterra. Talune di
queste risultavano collegate al suo indirizzo di studio, scienze statistiche,
altre invece erano a carattere più eterogeneo, troppo eterogeneo. Arrigoni ne
aveva annotate alcune su di un taccuino a parte; 2002-Borsa di studio in
museistica, progetto “Kernel”dell’Università di Padova. 2003-Borsa di studio in
conservazione delle risorse naturali, progetto gemellato Italia-Germania. In
quel caso specifico, Esposito aveva trascorso la bellezza di cinque mesi
all’interno di una baita, situata alle estreme propaggini della Foresta Nera.
2004-Progetto di investigazione in Portogallo, titolo del programma: Fortuna
letteraria e folklorica dei libri di Pigafetta in Spagna e Portogallo. E la
lista continuava per almeno una pagina. Invece un passo del diario, riportante
la data “16 settembre 2003”, annotata durante il periodo di soggiorno trascorso
da Esposito in Germania, recitava: “Fa un freddo polare. Non ricordo di aver
mai provato un freddo così intenso, così duro. Basterà? Basterà ad illudermi di
non trovarmi più laggiù?”. Ed infine l’ultimo passaggio, risalente a due mesi
prima della sua visita allo studio di Arrigoni, quello dove la schizofrenia
apparente di Esposito si tingeva quasi di lirismo: “Anni addietro pronunciai il
mio “si” alla vita e lo feci laggiù. Qualcosa mi ascoltò e disse, talmente
piano che a malapena io potei udirlo, “Ti faccio vedere io”. Da allora è stato
un perenne gioco del gatto col topo. Ho bisogno di soldi, non trovo lavoro da
nessuna parte fuorchè lì, cerco un amico, non lo trovo da nessuna parte fuorchè
lì. Il maggior vantaggio del Diavolo sta nel farti credere che non esiste. Ho
viaggiato attraverso mezza Europa ma non sono riuscito a staccarmi da “Loro”,
mai per più di due anni. Mi cercano, mi trovano, mi richiamano e se continuerà
così io sento che …” resto della pagina in bianco. Arrigoni ripassò gli appunti
ancora una volta, chiudendo gli occhi dopo aver letto ogni passaggio e cercando
di visualizzare una “forma-pensiero”, sempre avendo cura di toccare con la mano
sinistra una pagina del Diario di Esposito, lasciando che le sue intuizioni
venissero guidate da un’immagine particolarmente nitida. Ma ritornava sempre la
medesima; un cerchio di luce chiara con diverse fiammelle al centro, emananti
una luce intermittente … un cerchio o una spirale? Doveva saperlo, fiammelle
luminose, fra le quali alcune si spegnevano, con brevi esplosioni indaco e
giallo vivido, mentre altre si accendevano al loro posto, con sfumature
iniziali di colori basici differenti. Ancora quel maledetto Mandala. Alla fine
Arrigoni decise che il giorno dopo sarebbe uscito.
Alla ricerca
La zona
del quartiere universitario non era inrealtà né tanto antica né tanto “tipica”
quanto l’ufficio turistico volesse far credere. Tozzi palazzi del 1800 parevano
stringersi sulle strette viuzze lastricate a mattoni, risalenti almeno al 1300,
rozzi giganti di pietra immobili, colti un momento prima di scagliarsi l’uno
contro l’altro a emulazione di una grottesca rissa da strada, “quella” strada
famosa, forse la parte veramente antica, e l’unica. Arrigoni aveva scelto per
la sua indagine un “look” giovanile, nel continuo, assillante timore di
apparire ridicolo; Loden scuro, jeans di taglia “giusta” (non se ne poteva
proprio permettere un paio attillati, visti i chili in eccesso accumulati
durante l’ultimo anno), scarpe da ginnastica in tela nera. Il suo obbiettivo
era quello di farsi passare per un ex-studente in Giurisprudenza o Ingegneria,
in gita di piacere nei suoi ex-luoghi di ritrovo di un tempo. La piazzetta del
1500 che precedeva di poco l’imbocco della strada era gremita di studenti e
pensionati in attesa del bus cittadino, ma Arrigoni scivolò tra la gente con
sicurezza. Non avvertì alcuna sensazione peculiare nell’imboccare la strada, ma
quello non voleva dire ancora nulla. Qualunque cosa fosse in agguato laggiù non
lo aveva ancora avvertito e se davvero quel qualcosa era in agguato, ancora non
se ne era accorto. Gettò un’occhiata a destra e a sinistra, alle insegne dei
negozi e dei bar, per poi alla fine decidersi ad entrare in un’allegra “Bottega
del caffè”. All’ingresso fu investito da un piacevole aroma di grani tostati,
mentre assiepato ai tavolini, un gruppo di chiassose studentesse avvolte in
abiti variopinti sorseggiava cappuccini chiocciando con rassicurante
complicità. Arrigoni si avvicinò al bancone, per fortuna sgombro, ed ordinò a
una simpatica ragazza bionda e in divisa nera, un marocchino alla panna e senza
zucchero, forte dell’abitudine o del vizio. Una volta che il sapore vellutato della
bevanda ebbe raggiunto una patina uniforme sul palato, si decise a parlare. No,
la ragazza era lì da solo un anno e non si ricordava di nessun Francesco
Esposito. Fu interrogato persino il titolare del negozio, un attempato e
rubizzo signore sulla quarantina, con un forte accento calabrese ma la risposta
fu unanime e dello stesso tenore, né visto né sentito nominare. Arrigoni non si
scompose, terminò il suo marocchino e uscì di nuovo in strada. Dalle pagine del
diario risultava che Esposito aveva lavorato pressoché in tutti i locali del
quartiere universitario, non venivano riportati nomi, ma non era importante.
Dopo tanti anni parecchi avevano sicuramente cambiato gestione. Arrigoni fece
domande discrete in altri due bar, per un totale alcolico di due spritz e
quattro prosecchi. Il suo “travestimento” aveva funzionato talmente bene da
costringerlo a celebrare una “rimpatriata” con quattro ex-studenti in
ingegneria mai visti prima, ma di Francesco Esposito nessuno si ricordava,
nonostante le Facoltà di Ingegneria e Scienze statistiche risultassero
“accorpate” nello stesso edificio praticamente da più di un decennio. Un po’
alticcio, si apprestò a terminare il giro in una osteria-tavola calda di cui,
nebulosamente, ricordava menzione nel diario. Appena entrato, lo accolse
stavolta un gradevole odore di cipolle stufate. Ai tavoli sedevano operai
provenienti dalle vicine officine Whirpool (rigorosamente ubicate fuori dalle
mura medievali in osservanza alle leggi dell’urbanistica cittadina), nonché
qualche sparuto gruppo di studenti, tutti maschi. Alle pareti facevano bella
mostra di sé alcune riproduzioni in acrilico di stemmi nobiliari cittadini: “Un
esercente autoctono” si ritrovò a pensare Arrigoni fra sé, forse lui avrebbe
ricordato, pensò ancora. Capì di essere vicino, finalmente, a qualcosa di
decisivo nel momento stesso in cui una signora di mezza età , corpulenta e con
la vita cinta da un grembiule a scacchi bianchi e neri si avvicinò per prendere
la sua ordinazione, non preoccupandosi affatto di aver previamente portato un
menu. Quello non era un posto per turisti, ad Arrigoni andava più che bene. La
sensazione fu quasi impercettibile, ma al contempo vivida, fu una lieve
vibrazione nell’aria, l’impressione che una persona invisibile ma presente
avesse interrotto le sue abituali faccende per piantargli gli occhi sulla nuca.
Un lieve odore di terriccio bagnato gli impregnò le narici. Arrigoni si informò
gentilmente su cosa offrisse la cucina del giorno, ed optò per una zuppa di
cipolle ed un piatto di stufato, il tutto annaffiato da un bel quartino di
rosso della casa. Mentre la donna si recava in cucina, toccò leggermente il
“Bezoar” che aveva assicurato alla tasca interna dei pantaloni e che rivelava
la sua presenza con un leggero rigonfiamento… stava vibrando! Mentre la donna
sparecchiava i resti della zuppa (Eccellente, si trovò a pensare Arrigoni), si
informò discretamente se un certo Esposito avesse lavorato lì qualche tempo
addietro: l’occhiata sospettosa della donna gli causò un altro brivido involontario.
“Non mi pare di ricordare” rispose quella con una voce bassa e roca,
leggermente maschile. “Proverò a domandare al proprietario, se c’è qualcuno che
lo sa, quello è di certo lui”. Costui non si materializzò che a metà dello
stufato. Arrigoni aveva consumato il secondo piatto con una voracità che gli
era inconsueta, mandando giù generose sorsate di vino rosso, spesso e
stranamente aromatizzato. In principio scambiò l’omone che si stava avvicinando
al suo tavolo per uno degli operai che affollavano i tavolacci della sala
centrale, ma strizzando gli occhi, leggermente opachi a causa del vino forte,
dovette ricredersi. La mole dell’individuo era notevole, superando quella degli
avventori più alti del locale. Il cranio rasato e piccolo si allargava in un volto
rubizzo, dalle guance non rasate che diventavano una foresta di peli ispidi e
brizzolati sopra le labbra ed il mento, il tutto sorvegliato da due occhietti
piccoli e puntuti di colore azzurro-cielo. La pancia del proprietario era
enorme (come se fosse quella di un oste uscito dalle pagine di Chaucer, pensò
ancora Arrigoni leggermente alticcio) e fasciata da una leggera maglietta nera
che rivelava fin troppo bene i rotoli adiposi sottostanti, mentre le gambe
erano corte e tozze, fasciate da un paio di logori jeans neri. Lo straordinario
personaggio si sedette senza complimenti sulla sedia lasciata libera e lo
apostrofò con una voce stridula e leggermente chioccia, in aperto contrasto con
la mole complessiva: “Allora. Lei da quanto si trova qui?” Arrigoni accedette
di buon grado ad intavolare la discussione su di un piano informale, molti
erano i segni che riportavano a quel posto in particolare, tanto valeva fare
buon viso a cattivo gioco. “Solo da qualche settimana, sto cercando di
ambientarmi e di capire qualcosa delle usanze locali. Questa, mi è parso di
capire, è una città molto antica …”. Il formidabile oste si permise un ghigno
sghembo e barbuto: “Più di quanto possa immaginare … le è piaciuto il vino?”
“Uh … sì”, ovviamente Arrigoni non si aspettava la domanda, era ovvio che il
suo interlocutore godeva nel cambiare argomento sviandolo dove voleva lui …
oppure no? “Questa è la città del vino lo sapeva? Marta! Porta qui un altro
mezzo litro … offre la casa naturalmente. Sono stati gli Etruschi a insegnarci
come farlo, ma questo dovrebbe saperlo. Lei ha l’aria di uno studioso, si vede
che sa il fatto suo …” La donna arrancò al loro tavolo con insolita
sollecitudine, reggendo una caraffa in terracotta sciangottante per il liquido
purpureo e spumeggiante. “Ho conosciuto uno dei suoi vecchi “collaboratori”
qualche giorno fa. E mi ha parlato molto bene di lei e di questo posto”, mentì
Arrigoni, mentre avvicinava il suo bicchiere di coccio alla caraffa, la mano
che la reggeva era piccola e grassoccia, un'altra palese asimmetria rispetto
alla mole del suo interlocutore “… Così, visto che conosco così pochi posti
tipici ho pensato di sincerarmene di persona. Devo dire che Francesco aveva
ragione da vendere!” l’oste si permise un sorriso veloce per il complimento, ma
gli occhietti erano rimasti immobili ed attenti. “Francesco eh? Sapesse quanta
gente è passata di qui. Gli studenti adorano lavorare qui lo sa? Mangiano e
bevono quanto vogliono le mie boccucce da sfamare Ah! Ah!” la sua risata, in
contrasto con la voce era grassa e pastosa, proprio come avrebbe dovuto essere,
pensò Arrigoni. “Mi ricordo di Francesco Esposito, un ragazzo pensoso, un po’
scostante. Troppo scostante per questo posto, a noi piace gente allegra e spensierata”, nonché disposta a rinunciare
allo stipendio per qualche litro di vino, concluse mentalmente per lui
Arrigoni. “Già siamo vecchi di nostro e pure musoni, chi ce lo fa fare di
mettercene altri fra i piedi non crede?”, Arrigoni si permise a sua volta un
sorriso. Bagnò le labbra nel liquido, pastoso e con un retrogusto di selvatico,
di animale feroce, odore che dall’arrivo dell’oste si era fatto persistente.
Parlarono del più e del meno, e Arrigoni notò che l’altro, come era da
aspettarsi, beveva senza accusare gli effetti dell’alcool, per abitudine quasi
certamente, mentre lui doveva costantemente combattere con un senso di torpore
aggressivo, che scompariva sempre un momento prima di prendere il sopravvento.
Avvertì nei calzoni un senso di umidore scaturire dal Bezoar e sentì un
campanello d’allarme. “E’ stato Francesco a parlarmi dell’Antichità di questo
posto… con accenti marcati direi…”, a quell’affermazione lo sguardo dell’altro
si fece ancora più piccolo e attento “Si eh? E le piacerebbe sapere anche
perché immagino”, -“Sa com’è… sono qui da poco in fondo …”ribattè Arrigoni,
l’altro lo squadrò di rimando “Ah Ah Ah! Forse da meno di quanto voglia far
credere … e va bene! Mi segua, meglio di una sgambata non c’è nulla per
smaltire il pranzo. Marta! Accendi la luce sulle scale! Lei venga pure con me”.
Arrigoni seguì obbediente la schiena adiposa e scura dell’oste, prima nella
cucina, straripante di odori forti di spezie ed aromi; cannella, cumino, pepe
nero e prezzemolo, con sempre quell’odore feroce di selvatico, che forniva agli
altri odori una nota stonata e sinistra, come una belva che guatasse dal folto
di un boschetto di felci. L’enorme oste, afferrate colà delle chiavi rugginose,
aprì una porticina di legno nel tramezzo fra la cucina e la sala da pranzo,
scostando col piede piccolo e tozzo una serie di padelloni di ghisa, che
sferragliarono sonando sul pavimento di grezza pietra, avvisando Arrigoni che
le sue latebre erano in procinto di cedere agli assalti di un mal di testa
feroce. La zaffata di tufo umido delle scale gli aggredì subito le narici, poi
i due scesero all’interno di un budello che pareva arrivare alle viscere stesse
della terra. Rampa a rampa di quelle scale viscide e gocciolanti Arrigoni udì
un lamento indescrivibile, un mugugno come di chi abbia un sonno agitato e sconnesso
e ringraziò la sua buona stella che gli anelli di quella scala a chiocciola
fossero abbastanza ampi da non farlo ruzzolare giù in un quell’abisso tufaceo,
le cui pareti gli macchiavano le mani di giallo ocra e umido quando vi si
appoggiava per reggersi. Alcune lampade elettriche immerse nel tufo,
illuminavano parzialmente la catabasi, emanando un luce spettrale
rosso-aranciata, le parole dell’oste risuonavano ovattate e stridule alle
orecchie torturate di Arrigoni: “Ogni casa di questa città, ogni sotterraneo,
ogni cantina è stata scavata nel tufo in epoca più antica di quella medievale.
E’ qui che conserviamo il vino, quello buono, quello vero! Voleva un segreto?
Non c’è altro segreto che questo”. Quando arrivarono al fondo del budello,
Arrigoni se ne accorse solo perché sentì che i suoi piedi erano fermi e non si
muovevano. Si trovavano all’interno di un atrio circolare, illuminato da una
serie di candele accese, lumini da Chiesa, grossi ceri neri e rossi che
scoccavano fiammelle fioche da masse informi di cera, squagliata sui ripiani
naturali del tufo delle pareti. Nel mezzo della sala campeggiava un enorme
catino di terracotta, sistemato su quella che doveva essere la tarda
riproduzione (forse ottocentesca, pensò Arrigoni) di un sarcofago etrusco a forma
rettangolare, con i bordi istoriati a chiassosi fanciulli suonatori di flauto,
con gli occhi obliqui come quelli minoici. L’Oste stava indicando l’enorme
catino, dal quale, più forte che mai emanava un odore di feccia e di selvatico:
“Guardi qui! Una volta ci facemmo merenda quaggiù io e Francesco. Gli volevo
bene anche se era un mortorio d’uomo! E pensai che avesse capito …”
approfittando dello sguardo rivolto altrove dell’oste, Arrigoni portò alla
tasca del Bezoar una mano tremante … era fradicio!
Come se per tutto quel tempo non avesse fatto altro che assorbire il liquido
spesso e cremisi che lui aveva bevuto. Non fosse stato per quello, Arrigoni si
sarebbe trovato in una situazione molto spiacevole: “Capito cosa?” domandò a sua volta con un tono
di voce che non gli piacque affatto, ma dal quale si obbligò a non far
trapelare neppure un accenno di paura. L’altro lo gratificò con un ghigno che
sarebbe stato degno di un cane selvatico, “Oh ma lei già lo sa, è uno studioso
oppure no? Tutte le città sono state fondate con un sacrificio e tutte le città
hanno bisogno di sacrifici per sostentarsi. Non parlo mica di quel genere di
sacrifici con cui i politici si fanno bella la bocca sa? Qui se qualcuno non fa
le cose serie il vino buono non viene. Lei con che si riempie la pancia? Con le
belle parole forse? Non credo proprio…”. Il lamento si era fatto più cupo e
profondo a quelle parole, fino a raggiungere le ottave di un gemito stridulo.
Arrigoni volse i suoi passi con un scatto che gli costò un pulsare sanguigno
alle gambe e alle tempie. Mentre
affrontava l’anabasi sulle scale di tufo umido udì la voce squillante e quasi
in farsetto dell’altro inseguirlo: “Glielo dica a Francesco che un patto è un
patto e che scappare non serve a nulla. Non puoi andare a puttane senza
prenderti lo scolo glielo ricordi! Il pane va guadagnato e guadagnato sempre!”.
Arrigoni scostò con un calcio la porticina di ingresso ed afferrò uno
strofinaccio appeso ad un gancio del tramezzo, sotto lo sguardo stolido e
indecifrabile della cuoca. Lo avvolse intorno ai fianchi per nascondere la
chiazza rossa che si era allargata ai calzoni, poi, con un passo che obbligò a
restare deciso il più possibile, guadagnò l’uscita della bettola. In strada
alcuni studenti pensarono si trattasse di una uscita originale per via dello
straccio da cucina legato alla vita e gli sorrisero. Arrigoni, con il viso
sudato e cereo non ci fece caso.
Vodja, la guida
Aprì gli
occhi doloranti. L’incenso bruciato ai quattro angoli dello studio aveva
attenuato parzialmente il mal di testa feroce. Sedeva all’interno dell’ultimo
di sette cerchi concentrici tracciati con il gesso sul pavimento della stanza,
il tappeto di Bukara, intarsiato con scene di caccia mongola alla selvaggina
del Monte Elborz era stato accuratamente ripiegato e messo da parte. Era
arrivato il momento di chiamare suo figlio, il suo protetto, Vodja. Lo aveva
lasciato in un posto sicuro, perché gli Antichi non lo trovassero, all’interno
dei giardini circolari di Villa Giosa, fra le mani sapienti di Arturo Polianni,
l’ultimo dell’ordine dei Giardinieri e l’unico amico di Cernusco che gli fosse
rimasto, ma adesso era tempo di richiamarlo attraverso l’eterea città delle
luci, lui, il bambino che gli Antichi avevano mutato perché partecipasse ad un
tempo della natura umana e di quella astrale dalla quale Essi provengono,
perché potesse viaggiare a piacimento fra le terre di Hurqaliya e le città
degli “uomini di polvere”. Ma Arrigoni doveva permettere al suo terzo corpo di
abbandonare per un momento la carne e questo, senza Vodja, non era possibile.
Fissò lo sguardo sul soffitto. Il lampadario con le sue luci rosse pendeva al
centro di una spirale che formava sette circoli perfetti, concepita sul disegno
della cupola della cattedrale di Gerona, in Catalogna. Piccoli cerchi più
piccoli costellavano i bracci della spirale ognuno dei quali portava inciso a
fianco il nome di una stella in persiano; Al Ghùl, la stella-cane, Al Faèl, Al
Gibèr … Arrigoni fissò lo sguardo su ognuno dei circoletti, per poi riportarlo
al centro del lampadario; “Io ti chiamo Vodja, dal centro della stella polare,
il chiodo del mondo. Con l’aiuto dei cavalieri luminosi, che fanno da corte al
principe dei Cieli io ti chiamo. Per il buco nel firmamento, dal quale spunta
l’occhio di Bai-Ulgan io ti chiamo perché tu mi conforti e mi faccia da guida
nella Città di smeraldo.” Un suono di campane di bronzo invase l’aria, la loro
eco raggiunse le tonalità di una voce giovane e vibrante “Ti sento … e mi sei
mancato”. Arrigoni sorrise: “Anche tu Vodja. Devi aiutarmi e ci resta poco
tempo. Pronuncia le parole e tirami dentro, ci sono delle forze all’opera su di
me, forze non precisamente benigne”. Seguì un attimo di silenzio, durante il
quale si udì solamente il rimbombo delle campane di bronzo, poi una voce ricca
e vibrante, con le vocali suonanti come un corno da caccia rispose: “Gli
Antichi?”, “la malvagità è la stessa” rispose Arrigoni, “Ma non potrò mai
saperlo se non mi aiuti”. “Potrò restare … dopo?” domandò ancora la voce.
Arrigoni fece un altro sorrisetto; “Non ancora ragazzo mio. Anche se sai che lo
vorrei. Non voglio rischiare la tua presenza qui se prima non avrò compreso la
natura di quali forze sia all’opera in questo posto.” Silenzio, poi la voce
rispose con un tono più divertito, “allora vieni padre. Andiamo ancora insieme
nella Città di smeraldo, con me al tuo fianco, come sempre”. Arrigoni vide le
luci del lampadario farsi sfocate, scomporsi per poi ricomporsi in due fessure
luminose ed ambrate, come gli occhi di una lince selvatica. Dopo un attimo, dal
soffitto, un volto che assommava in sé le fattezze di un felino selvatico ed i
tratti delicati di un fanciullo di dieci anni si offrì al suo sguardo
affettuoso. Arrigoni strinse nella mano destra il bezoar ancora umido, la
pietra formata dai capelli intrecciati e induriti di una donna morta in
circostanze violente. “Vieni Padre. Vieni e raggiungimi” disse Vodja con un
sorriso gattesco, allungando un mano esile e snella che al posto delle unghie
esibiva i cuscinetti retrattili di una lince, dai quali scattavano e si
ritraevano gli unghioli. Arrigoni allungò la mano sinistra, quella libera e fu
dentro.
Verso la città
Con Vodja
che caracollava felice al suo fianco, il corpo efebico e scattante ricoperto da
una folta peluria dorata, a volte sulle due gambe e a volte sulle quattro,
Arrigoni attraversò la pianura dorata della città di Adocentyn. Era la prima
città del Mital che si incontra alla porta esterna. I campi rilucevano dell’oro
delle messi e c’erano cavalieri montati su destrieri splendenti e contadini in
vesti bianche, dal volto sereno e barbuto di saggi, a falciare le messi. I due
passarono davanti alle mura circolari di Adocentyn, la fortezza del Signore tre
volte-grandissimo, poggiando gli sguardi grati sui giardini prensili ed i visi austeri
e sorridenti degli abitanti. Arrigoni notò una traccia di allarme in quegli
sguardi, una sfumatura di avvertimento della quale avrebbe dovuto tenere conto.
Superato un colle, i due videro le mura della Città che stavano cercando, lo
specchio astrale di quell’altra. Nubi di uno smeraldo luminoso ne rivelavano la
vicinanza ad Hurqaliya, “Il trionfo dell’Occidente”, ma una cupa sfumatura di
marrone verdastro indicava al tempo stesso che forze oscure e maligne
allignavano fra le sue mura rosse e profonde come il vino nel fondo di un
bicchiere di cristallo. “Non vi sono guardiani alle porte Padre” disse Vodja
grattandosi con il piede destro un orecchio puntuto e sottilmente innervato.
“Segno che il vero pericolo è dentro, come avevo immaginato. Questo posto è
stato mutato perché sia una trappola per topi”, per tutta risposta, Vodjia si
leccò le vibrisse con una lingua lunga, rosea e puntuta.
Demoni
Fra le
strade della città, campeggiava un riverbero color porpora, torbido come il
vino vecchio in una coppa. I due viaggiatori ne percorsero i vicoli stretti,
seguiti da occhietti maligni e fosforescenti. “Vedono solo te Padre. Non è buon
segno” avvisò Vodja, colpa del vino pensò Arrigoni, ma uno sguardo preoccupato
del bambino gli ricordò, dolorosamente, che il pensiero equivale alla parola
all’interno dell’Alam. Alfine giunsero al vicolo che Arrigoni cercava, specchio
di quell’altro. La bettola era sparita, adesso campeggiava solo la cisterna,
enorme contro il cielo screziato e sfocata in corrispondenza del sarcofago
etrusco, come se questo lottasse continuamente con un’altra immagine, più
vivida e più luminosa di quell’altra, che tentasse invano di sovrapporvisi.
Arrigoni vide affreschi di un’antichità incredibile scomporsi e ricomporsi
sotto il suo sguardo, affreschi che rappresentavano divinità barbute e
sorridenti, delfini giocosi e guizzanti e Dèe nude vestite di cremisi. Sulla
cisterna si allungavano viticci di vigna, alcuni verdi, sfoggiavano già foglie
larghe e odorose di resina, altre, la maggior parte, erano attorte e nerastre
come vermi scuri e viscidi. Su tutto era persistente il mugugno che Arrigoni
ben ricordava ed un odore di marcio e muffa, contro il quale tentava di
lottare, quella fresco della resina di foglie giovani. “Tu hai bevuto di quel vino Padre?” domandò Vodja con voce
preoccupata. “E’ per questo che devo purificarlo” rispose Arrigoni con una
smorfia. Fece forza sul Bezoar e ne strappò un pezzo, approfittando della sua
umidità. Stava per lanciarlo nella tinozza quando uno stridìo prolungato,
simile a quello di un uccello rapace ma più agghiacciante gli squassò i
timpani. Gli occhietti fosforescenti che li avevano seguiti erano tutti intorno
a loro e fra le tenebre si profilavano sagome da incubo, artigli scagliosi,
code da rettile e musi che parevano di cani feroci o di faine. Proprio sulla
tinozza stava allargando le ali una figura imponente. Sfoggiava una tunica nera
come la notte e due ali di avvoltoio altrettanto ampie e dello stesso colore,
mentre dalla negrura spuntava il rostro di un uccello notturno, gli occhi
verticali come quelli di un falcone e la testa formata da un groviglio di
serpenti sibilanti. Arrigoni ne conosceva il nome sin troppo bene, ma impedì a
sé stesso di pensarci, i nomi significavano potere, soprattutto nell’Alam.
“Vodja!” urlò “tienili a bada se si avvicinano, io penso alla tinozza”, il
ragazzo-lince gli rivolse uno sguardo preoccupato con i suoi occhi ambrati, poi
scattò con una zampata che troncò in due un lungo serpente peloso, dalla faccia
di scimmia che era strisciato, non visto, nella loro direzione. Rumori di
lotta, sibili e tonfi avvisarono Arrigoni che la lotta infuriava oramai alle
sue spalle, così non perse tempo. Tirò indietro la mano e lanciò il frammento
di Bezoar verso quel rostro da incubo che emanava un opprimente lezzo di tufo
bagnato e zolfo, proprio mentre la cosa da incubo si preparava a planare nella
sua direzione. L’essere portò al rostro le adunche grinfie da rapace per
ripararsi ma non ci fu nulla da fare. Il Bezoar, a contatto con la creatura,
prese semplicemente fuoco, trapassò un artiglio del mostro come una piccola
meteora incandescente, striò le penne del rostro, diffondendo nell’aria un acre
puzzo di pollo bruciato e continuò la sua ellittica proprio dentro la cisterna.
Si udì subito un boato di tuono, seguito dalle strida irate del dèmone, poi
Arrigoni si voltò, tirò indietro il corpo fremente di Vodja, intento a sbranare
una specie di piccolo orso ricoperto di squame e cominciò a correre. Non prestò
attenzione al battito di ali immense alle sue spalle, né al lezzo di pollo
bruciato che gli invadeva le narici, né ai bassi ringhi emessi dal
fanciullo-lince, si limitò solo a pensare alla formula che avrebbe riportato
Vodja al suo rifugio, e lui al suo.
Una città creata dai sogni
“Mancanza
di sonno”, notò. Non era infrequente che accadesse, dopo un viaggio anche breve
nell’”Alam”, ma Arrigoni sapeva che la natura della sostanza archetipale era
mutevole ed instabile per sua stessa definizione, pertanto si era riproposto di
registrare fedelmente qualsiasi sensazione, per quanto banale o scontata,
qualsiasi “stato” fisico o mentale lo seguisse dopo un viaggio di quel genere.
Redasse meticolosamente l’ora del “contatto” con Vodja; “dodici minuti allo scoccare
della mezzanotte, a seguire, ciò che aveva visto e sentito. Guardò il quadrante
dell’orologio in vetro e legno d’acero, posto sulla mensola piena di libri che
aveva fatto sistemare sopra la scrivania, le una meno un quarto, 55 minuti in
totale, anche se l’attesa di Vodja, alle porte della Città pareva essere durata
ore. Tutto regolare, congelamento del Tempo, niente di preoccupante. Tuttavia
c’era qualcosa che non quadrava. Qualsiasi città si trovasse nell’”Alam” non
era se non la rappresentazione “interna” della sua forma “esterna”. In altre
parole, era la Città frutto e risultato della somma di immagini, sogni,
progetti, dei suoi abitanti o di coloro che “coscientemente” l’avevano
progettata per qualche finalità simbolica specifica. Era pertanto naturale, che
ciò che nella realtà appariva come lineare e frutto di una attenta planimetria,
nell’”Alam” risultasse un’ingannevole serie di falsi angoli, piani sfalzati,
geometrie curve e piane, quando non addirittura semplici proiezioni prive di
forma o sostanza reali. Tutto appariva troppo “Ordinato” nella proiezione che
lui e Vodja avevano visitato; le porte al loro giusto posto, i “Guardiani” ben
visibili e attenti, nessun “Vagante” alle porte, Entità vagabonde di natura
eterogenea, speculari a quelle in attesa o in sosta all’interno o all’esterno
di qualsiasi città “reale”, e che lo stesso Cernusco aveva tentato di
distinguere e classificare all’interno di un’opera “antropo-onirica” mai
terminata. Troppo strano. Arrigoni ripassò mentalmente le possibili eccezioni
alla regola, ma gliene sovvennero solamente due. Si girò sulla sedia per
raccogliere dalla mensola il volume del persiano Sohravahrdi “Sulle
Intelligenze Arcangeliche”, traduzione dal persiano di Giuseppe Cernusco, per
poi cominciare a sfogliarne l’indice. “In due sole città dell’”Alam al Mital”
(benedetto sia il suo Nome) l’Interno appare come l’Esterno”, ripetè fra sé
leggendo il passo corrispondente; “una di esse è Hurqaliya, la dimora perfetta,
il Santuario delle luci, fondata dai signori dell’Alba. Essa fu creata in tutti
i piani contemporaneamente, dunque “esiste” in tutti i piani
contemporaneamente. L’altra è la città Maledetta di Irem, detta “Il guscio
vuoto”, la dimora delle ombre fameliche, dove il ruggito del leopardo echeggia
all’unisono con i cachinni immondi dei ghouls e dei “Lilim”. Anch’essa esiste
in tutti i piani contemporaneamente.” Seguiva poi una lunga dissertazione
speculativa sulla natura stessa della Città maledetta. Certuni credevano che
l’una avesse germinato spontaneamente in seguito alla creazione dell’altra, che
fosse per così dire “L’ombra proiettata dalla luce dell’altra”, ma naturalmente
ciò non faceva che avallare le tendenze sofistiche di coloro che invece
asserivano proditoriamente non sussistere alcuna ragione perché l’ombra non
dovesse essere in tal caso antecedente alla luce. Certi altri invece
sospettavano una creazione autonoma di Irem da parte di Entità ostili ai
Signori dell’Alba, asserzione che Sohravardi generosamente, confutava con
argomenti teologici molto simili a quelli dei Padri del Deserto, ma Arrigoni
non era in vena di perdersi in dissertazioni sul sesso degli Angeli. Fece per
girarsi indietro a riporre il trattato sullo scaffale e fu allora che sentì i
peli rizzarglisi sulla nuca. Di sfuggita aveva notato l’ora riportata
dall’orologio, le una meno un quarto, la lancetta non si era spostata di un
solo minuto. Congiunse le mani sulla fronte e rimase un lungo minuto assorto in
considerazioni che è impossibile riportare, poi si alzò di colpo. Divorò la distanza
che lo separava dalla finestra in due rapide falcate e spostò i pesanti
tendaggi scuri. Sulla città tranquilla splendeva un caldo sole di mezzogiorno. Senza
indugio afferrò il telefono e compose il numero d’ufficio di Francesco
Esposito. Rispose una segretaria dalla voce studiatamente atona; “Non è ancora
in pausa pranzo. Chi è che lo desidera?” Arrigoni scandì bene il suo nome e si
dispose ad attendere l’inevitabile “Primavera” di Vivaldi, che si inserisce
sempre in casi consimili. Dopo qualche minuto rispose la voce sottilmente
seccata di Esposito; “Arrigoni buongiorno. Per cortesia una cosa breve, sono in
pieno tran tran …” –“Può chiedere un permesso?” – seguì un mezzo minuto buono
di silenzio; “Ha voglia di scherzare vero?” rispose di rimando Esposito,
Arrigoni si permise un sorriso stanco; “Cercherò di essere più chiaro
possibile. Lei è in serio pericolo di vita ed anch’io. Abbiamo già perso troppo
tempo, per cui debbo avvisarla che in meno di mezz’ora mi metterò in marcia, se
vuole seguirmi oppure no, questa sarà una scelta sua e solo sua. Per adesso si
limiti a rispondere ad una semplice domanda. Qual è l’edificio ubicato sulla
parallela all’osteria delle cinque viti?” – seguì un altro mezzo minuto di
silenzio – “Dunque è stato laggiù? Con chi ha parlato?”- Arrigoni stette bene
attento a reprimere un sospiro “Lei cosa crede? Per favore, le chiedo di
rispondere ad una semplice domanda…” – “Dovrebbe essere la Facoltà di Lettere e
Filosofia, nell’unica parallela possibile, quella che guarda alla Cattedrale
dell’Annunziata, dietro l’osteria ci sono solo baracconi.…”- “Che fa, mi
raggiunge?” domandò ancora Arrigoni. Questa volta non trascorse neppure una
manciata di secondi: “Mi dia almeno mezz’ora …”
Dentro il giardino
I due si
trovavano in corrispondenza dell’atrio principale di Facoltà, completamente
vuoto, dovuto all’ora di pranzo. Un perplesso Esposito stava appoggiato al
battiscopa del corridoio e guardava Arrigoni con impazienza a stento
trattenuta; “Vorrei proprio sapere che cosa le ha detto Gaspare”. Arrigoni non
era arrivato a presentarsi con il formidabile oste, ancora non sapeva se per
fortuna oppure no: “Mi creda, è meglio se glielo dico più avanti …”. Esposito
ristette per un momento perso nei suoi pensieri. Entrambi salutarono un
inserviente armato di scopa e strofinaccio, “avrei dovuto dirglielo …” riprese
Esposito”- “Non sarebbe servito a niente, l’ho scoperto comunque”, disse
Arrigoni con un sorriso lieve. “Vede … una volta valeva il detto: non c’è
inganno peggiore, da parte del Diavolo, di far credere che egli non esiste. Ma
adesso è diventato il contrario. Si affolla la testa delle persone di contenuti
pseudo-esoterici, si fondano sette e sotto-sette al solo ed unico scopo di
nascondere i luoghi di potere. Questi sono in bella vista, lo sono sempre
stati, ma nessuno è disposto a vedere veramente. Lei ci è arrivato per la via
più dura … ed a quanto pare anch’io”. Vedendolo corrucciato Arrigoni continuò;
“possiamo ancora uscirne, ma pretendo un atto, se vogliamo, di fede. Dovrà fare
esattamente come le dirò di fare, quando le dirò di farlo e dovrà obbedirmi,
per quanto la cosa potrà sembrarle assurda …”. Esposito lo guardò di rimando:
“Lei ha ragione. Ho sempre saputo che tutto è cominciato da quel posto, ma non
ho voluto mai ammetterlo, neppure con me stesso … era tutto troppo assurdo”.
Notando che la garitta dei custodi era vuota, Arrigoni fece segno all’altro di
fare strada. Percorsero il corridoio fino al termine, laddove la via era chiusa
da un modernissimo portone dotato di maniglioni antipanico, sul quale svettava
la scritta “Porta videosorvegliata”. Arrigoni trasse di tasca ciò che rimaneva del Bezoar, una palla
grigiastra, sulla quale rimanevano ancora macchie rossastre e porpora di vino,
la sollevò in alto e disse all’altro di stringerla forte. Per quanto perplesso
Esposito obbedì. Con le mani libere i due spinsero il maniglione ed entrarono.
All’inizio ci fu il consueto odore di umidità e muffa ed una oscurità fonda e
impenetrabile, ma man mano che avanzavano il Bezoar cominciò a emettere una
luce fioca e dorata, che illuminava il cammino davanti a loro. “Le telecamere
ci avranno già registrati… Oddio neppure so perché sto facendo questo…”, perché
gliel’ho detto io” gli rispose Arrigoni. “Vede … anche io ho sbagliato con lei,
quando le ho detto di credere gliel’ho messa giù come se si trattasse di una
questione di fede, ma qui si tratta solo di buon senso. Come dice Sherlock
Holmes, quando tutte le ipotesi sono scartate, l’unica vincente è la più
assurda. E non deve assolutamente preoccuparsi per le telecamere. Se non mi
sbaglio (e raramente mi sbaglio) queste avranno già registrato un guasto ben
prima di aver avuto la capacità di inquadrare le nostre facce. Badi solo a non
lasciare la mia mano e a non mettere un piede in fallo”. D’un tratto la luce
del bezoar inquadrò alcuni gradini tufacei che conducevano in profondità. Mano
a mano che scendevano, il mugugno che Arrigoni ben conosceva tornò a farsi
sentire, stavolta più nitido e molto più agghiacciante. “Io ho già visto questo posto, disse Esposito…”
–“Non è esatto” rispose Arrigoni. “Lei ha visto la brutta copia di questo
posto, o se vogliamo, la sua copia distorta.
Chi ha creato il posto che lei ha visto era una persona di grandi capacità e di
immensa inventiva, ma dotato di una immaginazione avida e contorta. Questo è il
posto Originale oppure, per usare una
metafora tanto cara ad un mio impagabile amico, il giardino di cui occorre
prendersi cura, estirpandone le erbacce”. Dopo una discesa che parve infinita,
i due si ritrovarono dinnanzi allo spettacolo che Arrigoni si aspettava. La
cisterna originale misurava il doppio di quella ubicata ne sotterranei
dell’osteria e poggiava su di un immenso tripode di bronzo i cui bracci
raffiguravano quattro sfingi tebane con i volti atteggiati ad una smorfia, che
poteva essere un sorriso. Sotto il tripode riposava il sarcofago originario,
magnifico nei suoi colori, seppure sbiaditi, di azzurro, ocra e malva, colori
regali. Il sarcofago rappresentava le fattezze di un signore etrusco, le labbra
atteggiate alla stessa espressione delle sfingi, ed ogni particolare del volto
e del corpo, come potevano notare i due attoniti pellegrini, era stato decorato
con smalti finissimi e resistenti benchè coperti di polvere e ragnatele, dal
nero dei riccioli spessi sul capo fino all’azzurro degli occhi ed all’azzurro
della tunica. La sala pulsava letteralmente al gemito prolungato che li aveva
prostrati e soggiogati durante la discesa e le pareti si contraevano e si
rilasciavano all’unisono con le contrazioni del sarcofago, come se la figura in
rilievo emettesse essa stessa un respiro disturbato e contratto.
Porcenac, il lucumone dormiente
Le muffe
che invadevano pareti e soffitto emettevano una luminosità verdastra, a volte
chiara come una pietra smeraldina ed a volte di un colore marcio e malato,
mentre sull’enorme cisterna si avvolgevano vitigni che sfoggiavano gambi verdi,
robusti e stillanti di resina e foglie terminali marcite e dalle nervature
linfatiche di un rosso arterioso e malato. “Ma questo è … incredibile!”
boccheggiò Esposito “Ho visto tutto questo in un sogno”. “Non mi stupisce”
rispose Arrigoni con voce fioca. Sempre reggendo il Bezoar che seguitava ad
emettere la sua luce dorata, Arrigoni spostò le foglie marcite che si
avvolgevano anche intorno al sarcofago, fino a scoprire un nome, vergato in
caratteri sia etruschi che romani, “PORCENAC”. “Ma non è possibile!” disse
Esposito “E’ Porsenna, ma la sua tomba non dovrebbe essere qui. Dovrebbe essere
in qualche luogo imprecisato di Chiusi”- “Non è esatto” rispose Arrigoni:
“Chiusi è il luogo dove egli regnò, non il posto dove volle essere seppellito”.
Condusse Esposito verso una nicchia tufacea della parete, usando il Bezoar come
una lampada. Alla fine, nascosto in una rientranza videro una figura orrenda,
palesemente incisa con una lama e ripassata con listelle di rame. Raffigurava
una orrenda testa anguicrinita di avvoltoio con due enormi ali stilizzate.
“Tuchulcha”-disse Arrigoni “dèmone dell’Ade etrusco, il cui metallo sacro è il
rame, posto qui dagli individui che hanno costruito le altre cisterne, per
avvelenare questa”. Notando l’espressione attonita di Esposito, Arrigoni si
accinse a continuare: “Vede, il vino non serve solo a libare nelle feste, è il
sangue della terra, il suggello dell’alleanza stessa degli uomini con la terra.
Il gran Re e sacerdote Porsenna, vide che questa terra produceva un vitigno
vigoroso e forte e volle erigere una città sacra. La concepì come un labirinto,
sul modello delle viscere umane. Sono infatti certo che una visione della città
dall’alto assomiglierebbe prodigiosamente al labirinto tracciato al centro
della Cattedrale di Chartres. Una volta fatto questo la consacrò ponendo la
propria tomba nel suo centro esatto. I suoi umori nutrirono un vitigno
speciale, che i suoi lucumoni trapiantarono in lungo e in largo per queste
terre. Il vino garantiva pace e prosperità e l’ha garantita anche con l’arrivo
dei Romani. Poi qualcuno notò che il vino possedeva anche altre proprietà …”
Esposito si appoggiò al muro per riprendere fiato, il lamento continuo
minacciava di fargli esplodere la testa, mentre l’odore di foglie marce e muffa
era addirittura insopportabile; “E quale?” domandò- “Quello di sospendere il
tempo” rispose Arrigoni, “portare in ogni epoca un aroma, un profumo della
beata era di Saturno.” Sorrise mestamente appoggiandosi accanto allo stupefatto
ex-cameriere. “Così un gruppo di maggiorenti della città, fra i quali anche il
suo amato oste, decisero di operare un rito rischioso e terribile.
Trapiantarono il vitigno nutrito dal corpo del Re in altre cripte e lo fecero
fermentare in altre cisterne, ma lo avvelenarono con il rame, il metallo dei
dèmoni ctoni. Così mutato il vitigno possedeva il potere di accelerare il tempo, ma allo stesso
momento di lasciare ogni affare della città esattamente com’era ai tempi
dell’esperimento, tempi per loro molto vantaggiosi oso immaginare”. Esposito
era sempre più stupefatto; “ma Gaspare non è mai stato un maggiorente!”, a quel
punto Arrigoni si permise una solenne risata: “A quel tempo nessuno di loro lo
era. Sicuramente alcuni avranno fatta strada in politica, altri si saranno dati
al commercio come il suo Gaspare, ma nessuno di loro si è mai mosso da qui. Il
sortilegio deve essere mantenuto con la costante presenza fisica dei suoi
officianti, oppure cessa di avere effetto.” Esposito affondò la testa sul petto
per qualche secondo, poi riprese: “Ma in tutto questo io che c’entro?” Arrigoni
parve pensarci su un attimo; “Lei, ed altri come lei, siete il sacrificio.
Porsenna sacrificò sé stesso per garantire un costante matrimonio con la terra,
ma lui era un grande Re ed un grande Lucumone, uno dei sovrani leggendari
dell’occidente. Le persone di cui stiamo parlando sono solo gente
dall’intraprendenza limitata e di modeste vedute, nonché egoisti e avidi. Per
garantire un rinnovo costante delle energie scatenate presso questa ed altre
cisterne, erano costretti a garantire sacrifici continui. Il vino prodotto
nelle cisterne avvelenate crea il vincolo. Le persone che lo assaggiano a lungo
rimangono incatenate a questa città senza potersene muovere e qui muoiono,
senza sapere bene per cosa sono vissute o perché sono rimaste qui. Gli
autoctoni, neppure se ne accorgono, i nuovi venuti, come lei, me o la sua
famiglia, per quanto si spostino rimangono sempre incatenati qui. Sono
costretti a tornare fino a quando il sacrificio non viene consumato,
solitamente grazie ad una morte che pare naturale, ma non lo è. Con lei come
con me, l’oste Gaspare ha capito da subito che si trattava di persone con una
forte volontà, così ci ha abbeverati con un vino estratto direttamente dal
vitigno originale modificato ed è un
vero miracolo che lei, da solo sia riuscito a resistere ai suoi influssi maligni
per così tanto tempo. Io ne ho accusato subito gli effetti e se non avessi
indebolito previamente il dèmone, a quest’ora saremmo entrambi spacciati”.
“Voglio solo uscire da questo incubo” sbottò all’improvviso Esposito: “Ho dato
litri di sangue e sudore a questa gente! Che altro devo fare per uscirne! Mi
dica che devo fare! Il mio sacrificio io l’ho già fatto!” Esposito aveva i
pugni contratti e guardava Arrigoni con una faccia che pareva la versione
antropomorfa di quella di Tuchulcha. “Ma il Re lo sa” rispose questi con voce
piana: “E’ stata la sua forza a sostenerla per tutto questo tempo, non se ne è
accorto?” Arrigoni mostrò il Bezoar ad Esposito che esibiva ancora i pugni
stretti, a mezz’aria. “Questa pietra è stata fatta con i capelli di una donna
che ho molto amato e che ha molto amato suo figlio, a sua volta. La forza di
suo figlio e quella del Re hanno aiutato me ad arrivare sin qui. Una metà della
pietra è già nella cisterna principale. E’ grazie anche a questo che io e lei
non siamo ancora morti.” Senza più esitare, Arrigoni scagliò il luminoso Bezoar
nella tinozza. La piccola pietra descrisse una parabola ascendente e poi
discendente, come una piccola meteora poi si immerse con un “pluf” nel liquido
celato dalle pareti di terracotta. Come d’incanto il gemito scemò per divenire
un mormorìo appena accennato, la luce perse le sue sfumature di un
verde-rossastro malato per raggiungere un colore smeraldino e uniforme e i due
credettero persino di notare i vasi linfatici delle foglie perdere il loro
colorito tumescente, per avvicinarsi ad una sana sfumatura di verde. Fatto
questo Arrigoni si chinò per strappare i fili di rame che formavano l’orrenda
figura di Tuchulcha, poi li appollottolò in un rozzo gomitolo, che consegnò ad
Esposito: “Lo seppellisca in un luogo lontano dalla città, possibilmente in una
cava abbandonata, oppure lo regali a qualche robivecchi. Ci vorrà del tempo
perché le cose tornino normali, ci sono ancora molte cisterne avvelenate, ma
abbiamo guarito quella principale, le cose non potranno che andare meglio,
adesso, se non altro per lei”.
Il ritorno del tempo
Esposito si mise il gomitolo in tasca e si
fermò a guardare la figura del Re dormiente, gli parve che il suo petto di
smalto e terracotta si muovesse all’unisono con il pulsare del suo cuore.
“Perché questo?” domandò Esposito. “Perché tanta cattiveria?”. Arrigoni si era
perso momentaneamente nei ricordi ed attese qualche secondo, prima di
rispondere. “Tutto questo paese soffre dello stesso Male e forse tutto il
Mondo. All’opera vi sono Forze che vogliono accompagnarci verso un futuro
sereno e allo stesso tempo Poteri che vogliono il nostro asservimento perpetuo.
Io combatto quelle forze da poco tempo, ma se lei ci riflette, scoprirà che ha
già avuto a che fare anche lei con gli effetti visibili di questa lotta. Il
tempo qui, adesso, nella città intendo, riprenderà gradatamente il suo corso
normale. Probabilmente il suo amico Gaspare si vedrà ricevere tutti in una
botta gli avvisi di pagamento e l’assalto dei creditori che ha cercato di
tenere lontani per anni e scoprirà che molta gente su cui prima faceva
affidamento non sarà più molto disposta ad aiutarlo con la medesima
sollecitudine. Da lui non dovrà aspettarsi ritorsioni, tuttavia la consiglio
caldamente di andarsene, non le mancano né il desiderio né tanto meno i mezzi
per farlo”. Esposito riflettè un momento su quelle parole; “E lei?” domandò
infine con una nota di sincera preoccupazione; “Oh io me la caverò” rispose
l’altro; “All’opera non ci sono solamente forze negative, gliel’ho detto e poi
… ho chi bada a me”. Mentre si apprestavano a risalire in superficie notarono
che lo splendore smeraldino si era diffuso per tutto il percorso, scaturendo
direttamente dal centro della tinozza, come un faro pulsante. “Posso domandarle
cosa ha detto di me Gaspare quando ci ha parlato?” fece Esposito. Arrigoni
esplose in una risata squillante, una risata liberatoria: “Ha detto che lei è
un mortorio e francamente inizio a dargli ragione. Sia felice e cominci a
guardare alla vita con altri occhi! Le do un consiglio vada a salutare Gaspare
e si faccia una bella bevuta con il suo vino. Scommetto dieci a uno che
stavolta avrà un sapore insolito per tutti e due… ma soprattutto per lui!”
Ridacchiando entrambi, si apprestarono ad intraprendere la salita.
Mariano D'Anza
Piccolo Glossario Terminologico:
Grand Grimoire: Libro di magia nera che si vuole risalente al 1522 ma pare
essere stato redatto nel 18° secolo. Potrebbe anche essere una traduzione del “Grimorio
di Papa Onorio”. E’ conosciuto anche sotto il nome di: “Le veritable Dragon
Rouge” e pare che molti praticamenti del Voodoo haitiano lo venrino come un
vero e proprio testo sacro, ma qui è usato in un senso palesemente ironico.
Bezoar: Dal persiano pâdzahr, ovvero “antidoto”. Generalmente si tratta di una massa che si
intrappola nel sistema gastro-intestinale. La tradizione islamica attribuiva
grande potere ad un Bezoar formato dai capelli che una vergine inghiottisce
insieme alle sue lacrime per motivi amorosi e si riteneva che tale tipo di massa
(che una volta essiccata assumeva l’aspetto di una pietra) fosse in grado di
curare gli effetti di qualsiasi tipo di veleno.
Tuchulcha: Demone etrusco dell’Oltretomba la cui descrizione
(sostanzialmente identica a quella che ne fa Arrigoni, a parte le orecchie
d’asino non notate, probabilmente a causa della concitazione del momento) si
trova invariata in un affresco della “Tomba dell’Orco” a Tarquinia.
Tradizionalmente, il colore associato a questo demone era il giallo, da cui il suo
metallo caratteristico, il rame.
Alam Al Mital: Lo studioso francese Henry Corbin traduce questo termine
arabo con “Mundus Imaginalis” o “Mondo delle Intelligenze Arcangeliche”
(secondo la dizione che adottano alcuni mistici persiani). Si tratta di un concetto
dell’ermetismo persiano del 12°-13° secolo D.C., fortemente influenzato dal neoplatonismo
di Plotino e Proclo e designerebbe il mondo delle forme simboliche originarie e
preesistenti alla creazione materiale del Cosmo, conservando una eco delle idee
Iperuranie di Platone.
Adocentyn: Secondo il Ghayat Al Hakim (lett. “Il fine del saggio”)
dello pseudo Maslama Al Magriti si tratta della prima città sacra d’Egitto
fondata dal Re-Sacerdote di origine divina Ermete Trismegisto (Il “Tre volte Grandissimo”).
Il testo a cui facciamo riferimento è conosciuto in Occidente con il nome
sulfureo di “Picatrix latino” ed è stato tradotto dall’arabo da Alfonso X detto
il saggio (1221-1284), sovrano di Castiglia e Leòn. Si trattava di un testo
molto consultato sia durante i Medioevo che durante il Rinascimento e con la
caduta di Costantinopoli (1453) e con il conseguente afflusso di testi ermetici
tradotti da intellettuali greci in fuga, può aver contribuito alla leggenda
occidentale di Ermete, in parte divinità associata all’egizio Thoth (O Theuth,
secondo la dizione platonica), in parte sovrano illuminato e mago.
Hurqaliya: Città principale del “Mundus Imaginalis” insieme a Jabarsa e
Jabarqa. E’ chiamata anche “Città dell’Angelo” e “Città di smeraldo” (colore
associato all’Occidente nella simbologia sabea e persiana). Trattandosi della
duttile materia simbolica del mondo archetipale, a volte Hurqaliya appare al
mistico sotto forma di un Angelo o di un profumo particolare.
Bai Ulgan: Divinità Iperurania per i Tartari calmucchi ed i mongoli
siberiani. Da questo e da altri riferimenti, si inferisce che quelle di
Arrigoni, sono probabilmente tecniche sciamaniche di visione auto indotta
basate su di un saldo impianto dottrinale appartenente all’ermetismo persiano,
sabeo e arabo. Ma questa è solo opinione di chi scrive.
Glossario dei nomi di persona:
Sohravardi: E’ probabile che Arrigoni alluda all’ermetista e mistico
persiano Shihaboddin Yahya Sohravardi (XII sec.), chiamato dai suoi seguaci
“Shaykh Al Ishraq” (lett. “Signore della Gnosi”), che nel “Libro dei Colloqui”
e nel “Libro delle Delucidazioni” descrisse dettagliatamente la natura del
“Mundus Imaginalis” e della percezione immaginativa dell’uomo. Tuttavia il
testo al quale Arrigoni fa riferimento non è conosciuto nella bibliografia che
del mistico ha redatto lo studioso francese Henry Corbin.
Porsenna: Trattasi del Grande sovrano e lucumone etrusco Lars Porsenna
(VI secolo A.C.), signore di Chiusi e dominatore di Roma, dopo aver sconfitto
le sue truppe a seguito della cacciata di Tarquinio il Superbo. La vicenda di
Arrigoni rafforza una attuale prospettiva storica, che vuole un Porsenna non
solo come re di Chiusi, ma anche di altri centri etruschi di grande importanza
sia economica che militare, altrimenti non potrebbe darsi spiegazione del
perché i romani, già usciti vincitori dai tentativi di Tarquinio per
riprendersi il seggio capitolino con l’aituo di Veio e Tarquinia, abbiano
invece ceduto proprio alle armate di Porsenna, secondo quanto riportato da Tito
Livio. Tradizionalmente si ubica la tomba di Porsenna all’interno di un
mausoleo piazzato al centro di un labirinto sotterraneo mai ritrovato, ma le
vicende vissute da Arrigoni ne lascerebbero trapelare un diversa ubicazione.